Sette giorni tra Kabul e Kandahar

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Sette giorni tra Kabul e Kandahar

07 Aprile 2011

Passare una settimana tra Kabul e Kandahar, parlando con funzionari afghani, diplomatici ONU e militari NATO per capire cosa succede nel paese, è come essere gettati in un caleidoscopio di volti, storie e visioni della realtà. Mettendo insieme i pezzi del puzzle si può avere una idea generale, per quanto approssimativa, di una situazione complessa e in rapida evoluzione.

Sulla via per Kabul

Il gruppo di esperti civili scortato dalla NATO in Afghanistan a fine marzo comprendeva accademici e ricercatori provenienti da diversi paesi parte della International Security Assistance Force (ISAF), la missione guidata dalla NATO che dal 2003 cerca di stabilizzare il paese dopo la cacciata dei Talebani post-11 Settembre. Lo scopo del tour era far vedere per quanto possibile la realtà sul terreno, e soprattutto far parlare direttamente con le persone – membri di ONG, analisti indipendenti, diplomatici ONU e UE, funzionari e politici afgani, e ovviamente vari ufficiali e comandanti di ISAF – che partecipano in Afghanistan alla ricostruzione materiale e/o al negoziato politico-diplomatico e/o alla campagna militare contro la guerriglia. Tre aspetti indissolubilmente legati, tanto che tutti ormai hanno capito che non ci può’ essere sicurezza senza un governo afgano operante e un minimo di sviluppo socio-economico, e viceversa.

Dopo le riunioni preparatorie a Bruxelles, e un surreale scalo all’aeroporto di Dubai tra i grattacieli costruiti su isole artificiali, un volo di linea della Safi Airlines ci porta a Kabul sorvolando infinite montagne e deserti punteggiate di sparuti gruppi di case. Atterrati all’aeroporto internazionale di Kabul sembra di essere in qualsiasi altro paese povero in via di sviluppo, con cartelloni pubblicitari vagamente simili a quelli occidentali che promuovono compagnie telefoniche, bus scalcinati che conducono dall’aereo al controllo passaporti, vecchi e polverosi nastri per bagagli. Si realizza di essere in un teatro di guerra, o meglio di guerriglia e controguerriglia, solo quando la scorta militare che ci attende all’uscita dell’aeroporto ci fa indossare giubbetti antiproiettile ed elmetti prima di salire sulla jeep.

Le strade di Kabul sono sporche, caotiche e intasate di traffico, vive e vissute in modo sorprendente. Quasi tutti i piccoli edifici a un piano che si affacciano sulla strada sono botteghe in cui si macella carne, si riciclano cellulari, si riparano biciclette e si vendono stoffe. Le jeep, i pick up, le station wagon e le ape car sono cariche all’inverosimile di persone e merci. Nei pressi del bazar carretti, carriole, passeggini e qualsiasi piattaforma che sia possibile mettere su ruote è carica di frutta, ortaggi e spezie in un arcobaleno di colori che i venditori cercano di preservare dalla onnipresente polvere spazzolando continuamente la merce esposta all’aperto. Mendicanti, venditori ambulanti, biciclette e pedoni si spostano senza sosta dal marciapiede alla strada agli incroci zigzagando tra le macchine. Poliziotti e militari afgani armati di fucili mitragliatori pattugliano fanno la guardia alle rotonde, come quella intitolata all’eroe nazionale Massud, mentre convogli ISAF come il nostro si destreggiano tra il traffico, le buche e le deviazioni.

La folla è soprattutto composta di uomini: vecchi dai lineamenti scolpiti e la barba curata, giovani vestiti un po’ all’occidentale un po’ alla maniera tradizionale, ragazzini che giocano o lavorano o mendicano e che racchiudono in un viso da bambino l’esperienza e la maturazione di un uomo adulto. Le donne sono poche, la maggior parte di loro porta uno scialle e le altre un burqa azzurro. La folla e i negozi si diradano quando entriamo nel quartiere delle ambasciate, la collina Abkar Wazir Khan raccontata in “Mille giorni a Kabul”, dove alti muri in cemento, filo spinato, sacchi di sabbia, posti di guardia e sbarre segnano la strada fino al quartier generale di ISAF. Buona parte del personale internazionale   lavora in questa bolla protettiva, che seppur necessaria per motivi di sicurezza rischia di separare non solo fisicamente ma anche psicologicamente gli “internazionali” dagli afgani.

Good Morning Afghanistan

Nel quartier generale di ISAF tende, container, jeep e mezzi blindati sono disposti in modo apparentemente casuale, come se la costruzione della base non avesse seguito un piano preciso ma nel tempo di fosse evoluta per aggiunte e modifiche, a partire dal piccolo nucleo originario. E ciò ben riflette la stessa natura della missione ISAF, che e’ cresciuta e cambiata nel tempo ben oltre i piani iniziali degli Alleati. La costruzione di grandi strutture permanenti avrebbe richiesto di spostare la base fuori città, ma si è scelto di rimanere nel centro di Kabul il più possibile a contatto con le istituzioni afgane e le ambasciate invece di aumentare ulteriormente l’effetto di separazione, già alto a causa delle misure di sicurezza.

Il risultato è che nella base si respira quasi un’atmosfera da "Good Morning Vietnam", con i soldati che si adattano agli spazi ristretti e alle strutture temporanee cercando un po’ di relax nella palestra, e con la musica country o rock che i nostri soldati di scorta ci fanno sentire in auto canticchiandola con un accento del Texas, South Carolina o Nebraska. Ci sono però tre elementi assolutamente nuovi e peculiari di questa atmosfera da “Good Morning Afghanistan”: la presenza pervasiva della tecnologia, per cui ogni soldato in branda ha il suo laptop connesso a internet e viedeochiama la fidanzata via skype o manda messaggi via FB; la natura internazionale della missione ISAF, visibile a mensa come negli incontri ad alto livello, con un continuo miscuglio di 49 diverse nazionalità provenienti da tutto il mondo. La terza e più interessante novità è la presenza delle donne, e non solo in settori più "protetti’ come logistica, amministrazione o comunicazione: il capo della nostra scorta è una biondissima trentacinquenne di Praga, che maneggia con la stessa tranquillità la pistola di ordinanza e gli orecchini che non rinuncia a portare insieme alla mimetica.

In una situazione di controguerriglia, come è quella in Afghanistan dove il governo Afghano e la missione ISAF combattono i guerriglieri Talebani e di altri gruppi per stabilire l’autorità statuale sul paese, non si sente non si vedono eserciti in marcia stile Seconda Guerra Mondiale né scene da guerra civile come in Libia o nei Balcani. Nella vita quotidiana in un certo senso violenza e morte sono percepite come lontane, salvo poi ritrovarsele improvvisamente di fronte. Quando abbiamo sostato nella base ISAF di Kandahar, siamo stati avvertiti che spesso di notte i guerriglieri lanciano qualche razzo sulla base. Perciò, se avessimo sentito la sirena mentre eravamo nel dormitorio avremmo dovuto sdraiarci a terra finché il suono non fosse cessato, e poi andare nel bunker in attesa che la sicurezza fosse ripristinata. La minaccia sembrava tutto sommato remota, finché intorno a mezzanotte non ci siamo ritrovati sdraiati a terra ad ascoltare la sirena, e poi nel bunker insieme ad un’altra dozzina di persone mentre un paio di altri razzi sibilavano nell’aria. Il giorno dopo si scherzava sulla vicenda, salvo poi parlare con un soldato che era nella tenda colpita qualche notte prima da un razzo e ha visto il suo vicino di branda tagliato in due dall’esplosione.

Questa situazione di relativa sicurezza con picchi di insicurezza riguarda anche le aree più tranquille del paese. Nelle province a Nord e a Ovest, in queste ultime dove ISAF è sotto comando Italiano, è avvenuto nel 2010 solo il 5% di tutti gli atti violenza compiuti in Afghanistan, e si possono perciò considerare relativamente stabili. Tuttavia proprio a Mazar-el-Sharif, la più importante città del nord, durante una manifestazione pacifica degli insorti hanno attaccato la sede locale dell’ONU e ucciso sette dipendenti, proprio mentre noi parlavamo con il capo della missione nella sua residenza di Kabul.

Il bazar e il giardino

Il bazar orientale rientra nell’immaginario collettivo di ogni società occidentale, e i suoi colori, suoni e odori sono stati raccontati in mille modi. La parte più bella e divertente è forse però l’interazione stessa con i venditori, che a Kabul può durare anche mezza mattinata per un piccolo gioiello o una semplice pashmina. Infatti, il negoziante o l’ambulante afgano è abituato a contrattazioni estenuanti con clienti altrettanto tenaci, e il prezzo iniziale è sproporzionatamente alo proprio per permettere la concessione di elevati sconti, mentre un prezzo basso invece indica semplicemente che il prodotto è “Made in China”. Non è raro trovare venditori che parlino un inglese decente, e persino un po’ di italiano sufficiente a chiederti che lavoro fai, in che città vivi e per chi è il regalo, al fine di farsi una idea di quale prezzo possano spuntare.

Come in una partita a poker, un buon bluff è sempre utile e fingere di andarsene di solito fa sì che il prezzo proposto scenda drasticamente. Anche togliere le banconote dal portafoglio per mostrarlo quasi vuoto, o meglio con la cifra massima che si può spendere per quell’oggetto, fa parte di questo gioco delle parti. Gioco in cui ognuno dei due sa che l’altro mente, sui soldi che si hanno in tasca piuttosto che sull’argento presente davvero in quel braccialetto, ma i ruoli in commedia sono recitati con rispetto reciproco e anche un po’ di divertimento. Alla fine, pagare la metà di quanto chiesto all’inizio dal venditore – che comunque ci ha guadagnato enormemente – è un risultato soddisfacente per un uomo occidentale, mentre le donne riescono sempre, persino con il più talebano dei mercanti di Kabul, a spuntare un prezzo migliore.

I Bagh-e babur, “Giardini di Babur”, sono un oasi di verde e di arte in una città sovrappopolata – 4,5 milioni di abitanti – e deturpata dai Talebani, dalla guerra civile e dall’architettura sovietica. Costruiti nel ‘500 dall’imperatore moghul Babur, arrivato a Kabul dall’India, cinti di mura e con al centro la residenza reale, comprendono una piccola, marmorea, moschea e la tomba dove Babur stesso fu seppellito. A inizio ‘900 un piccolo padiglione in stile liberty è stato aggiunto in un altro punto del giardino, frutto ponderato dell’interazione tra oriente e occidente, e negli anni ’30 i giardini sono stati aperti al pubblico.

Il direttore del giardino-museo, a sua volta un ex mujaheddin, ci mostra sulle foto del sito all’epoca dei Talebani gli edifici distrutti, i mosaici in pezzi, le lapidi divelte, gli alberi secchi e le fontane trasformate in acquitrini. Completamente restaurati dopo il 2002 con donazioni internazionali e gestito congiuntamente dalle autorità afgane e dal consorzio di donatori, oggi i Bagh-e Babur contano 5.000 alberi e ospitano mostre nella ex residenza reale. Le famiglie che bevono il tè sedute sotto i ciliegi stupendamente in fiore, e la scolaresca che sciama tra una sala e l’altra del museo, sono immagini idilliche quanto reali di come l’Afghanistan vorrebbe e potrebbe essere. Solo alcuni pannelli della moschea bianca mostrano ancora i grossi fori dei proiettili sparati anche in questa collina durante la guerra civile, forse un monito volutamente lasciato ai governanti afgani di oggi.

Salaamu alaykum

Gli incontri con i rappresentanti afgani, siano essi civili, politici o militari, sono stati completamente diversi da quelli con gli internazionali presenti in Afghanistan. Non ci sono power point, proiettori, cartelline pre-assemblate sul tavolo di lavoro, per la verità spesso non c’è neanche il tavolo di lavoro. C’è invece una stanza ricoperta di tappeti, con divani e poltrone messe in cerchio e vicino qualche piccolo tavolino basso con un vassoio di frutta secca. Dopo il saluto tradizionale, il palmo della mano destra portato sul cuore mentre si mormora “salaamu alaykum”, e dopo che tutti gli ospiti sono seduti, silenziosi camerieri servono del tè bollente dal sapore forte, sconosciuto, ogni volta diverso. Molti degli afgani incontrati vestono alla maniera tradizionale, con larghi pantaloni e lunghe casacche di colore chiaro e sopra una specie di gilet scuro, turbanti o copricapo tradizionali. I più giovani vi aggiungono una giacca di taglio occidentale.

Alcuni ministri e funzionari che a Kabul lavorano a stretto contatto con gli internazionali vestono invece come qualsiasi altro impiegato o politico occidentale. Tutti hanno la barba, tradizionalmente segno distintivo di un uomo diventato adulto, curata nelle maniere più diverse. Ogni incontro è stato a suo modo speciale. A Kabul, il primo è stato presso il dipartimento governativo che si occupa di metter costruire la pubblica amministrazione a livello locale, selezionando e pagando i funzionari e scrivendo i regolamenti per il funzionamento della macchina statale. Un compito immane in un paese dove 25 anni di guerra civile hanno distrutto lo stato, e dove la stessa geografia rende arduo ogni collegamento tra Kabul e le remote province afgane. Ma il gruppo che abbiamo incontrato aveva l’orgoglio di chi stava facendo ogni giorno qualcosa di necessario per il proprio paese, e ci spiegava con passione quanti funzionari lavorano in ogni provincia, come sono formati, come funziona il bilancio centrale e provinciale, ecc. Discorsi noiosi in ogni altro paese europeo, ma che Ahmed ci faceva brandendo le 600 pagine di diritto amministrativo afgano come se fossero il suo Corano.

Ai vertici del Ministero della difesa afgano è facile trovare ex mujaeddin – i guerriglieri che hanno combattuto i sovietici negli anni ’80 con l’appoggio americano, come raccontato ne “La strana guerra di Charlie Wilson” – oggi in giacca e cravatta. Lo stesso Ministro Wardak ha partecipato a tutte le guerre afgane come guerrigliero, comandante, generale, capo di stato maggiore della difesa. Perciò, a domande sulla attuale strategia di controguerriglia non è difficile incorrere in risposte come ho combattuto 33 anni come guerrigliero o contro i guerriglieri. L’ho fatto anche a fianco di quelli che oggi combattono contro di me, e penso che possiamo trovare un accordo con loro. Sono stato addestrato sia dai sovietici che dagli americani, e vi posso dire che quando combattevo i primi per conto dei secondi ero armato meglio di quanto lo sono oggi.

Tutt’altre persone al Ministero per lo sviluppo rurale, cruciale in un paese in cui l’80% della popolazione vive di agricoltura. Lì si incontrano afgani ex funzionari dell’ONU, estremamente competenti, spesso con l’aria bonaria e astuta del venditore di tappeti. Chi tra di loro ha conosciuto dall’interno come funziona il sistema degli aiuti allo sviluppo, non vede l’ora che il suo paese se ne liberi. Vuole cioè che gli aiuti non siano più gestiti da internazionali, secondo i loro programmi e con i loro impiegati internazionali, ma siano dati al governo afgano perché li usi secondo le priorità afgane e impiegando personale afgano. Ciò non è stato possibile negli scorsi anni ed è tuttora difficile in molti settori e province, a causa soprattutto della mancanza di adeguato personale afgano, tuttavia oggi operano strutture come questo ministero – 6.000 funzionari a Kabul e nelle principali province, 6 miliardi di dollari spesi negli ultimi 18 mesi per lo sviluppo rurale – che sono in grado di aiutare l’Afghanistan meglio di quanto facciano costosi consulenti stranieri. E mentre sentivo questi discorsi, a cena in un saletta dell’Hotel Serena al centro di Kabul, con musica tradizionale dal vivo e il più rinomato menu afgano della capitale, sembrava una realtà completamente diversa da quella che avremmo visto il giorno dopo, ma non per questo meno vera.

Un tè a Kandahar

La mattina dopo, in volo per Kandahar su un C130 della US Air Force con gli immancabili giubbetto anti proiettile ed elmetto, ci si chiedeva quali particolari misure di sicurezza sarebbero state necessarie per muoversi nella provincia più pericolosa di tutto l’Afghanistan, storica culla e roccaforte dei Talebani. La risposta è arrivata sotto forma di quattro enormi veicoli blindati, ognuno con un uomo alla mitragliatrice in torretta, per un totale di trenta soldati canadesi armati di fucili mitragliatori, granate e pistole. Arrivati nella sede del Consiglio Provinciale di Kandahar, siamo stati accolti dal Capo del Consiglio in persona, circondato da altri membri della Shura. Pashtun tra i più conservatori, osservavano con uno sguardo indecifrabile la collega americana che, per quanto avvolta da uno scialle, mostrava inequivocabili occhi azzurri, lentiggini rosse e una ciocca di capelli biondi.

Seduti sotto una grande foto in bianco e nero di mujaeddin ai tempi dell’invasione sovietica, sgranavano con calma una collanina del tutto simile ai Rosari che le nonne della provincia italiana maneggiavano durante le loro preghiere. Alla domanda sui rischi che si corrono a rappresentare il governo centrale nella roccaforte della guerriglia, la risposta è stata, con voce calma che l’edificio in cui sedete ora è stato attaccato sette volte, in due delle quali è stato completamente distrutto. L’ultimo attentatore suicida che si è fatto esplodere qui dentro ha ucciso 18 persone incluso il consigliere per l’istruzione e quello per la sanità. Ma noi restiamo qui a fare il nostro dovere. Silenzio. Una sensazione di rispetto e di ammirazione per uomini che a un tratto sembravano a metà tra il patriota e il martire, con i quali a pranzo abbiamo spezzato il pane e diviso il riso e l’agnello. Uomini guidati dal fratello del presidente afghano Amid Karzai accusato di essere tra i più corrotti esponenti del governo, con un patrimonio personale di 1 miliardo di dollari e 10.000 Pashtun sul libro paga come operai o miliziani. In Afghanistan la realtà non è mai in bianco e nero.

Il punto più vicino al bianco è stato rappresentato dal governatore del distretto di Dand, vicino a Kandahar. Ci siamo arrivati in elicottero sui Black Hawk americani, gli stessi immortalati da Ridley Scott in "Black Hawk Down", sorvolando rettangoli di verde, campi di melograni e frutteti, che sfidavano tenacemente il deserto grazie all’acqua fornita dalla diga costruita dai canadesi e difesa giorno e notte dalle forze ISAF contro i sabotaggi della guerriglia. Vista dall’alto Kandahar, così come altre cittadine e villaggi, è per lo più composta da case a un piano con ampi cortili cinti da alti muri, all’interno dei quali piccoli orti erano curati da donne tenute nascoste allo sguardo di estranei.

Il governatore a 28 anni è diventato responsabile di un distretto con 160.000 abitanti, in una società in cui il rispetto si guadagna principalmente con l’età, ed è al suo posto da quattro anni, quando i governatoci in media restano in carica otto mesi prima di essere ammazzati, di essere sostituiti dal governo centrale, o di dimettersi per cercare una carica più tranquilla. Una barba appena visibile, ci parla con un grande sorriso delle 30 scuole aperte, di come ogni giorno tranne il venerdì – giorno di preghiera e riposo per i musulmani – sia in ufficio per risolvere le dispute tra i suoi concittadini con una sorta di arbitrato a metà tra il sistema tradizionale e lo stato di diritto, di come cooperi con i civili e militari del Provincial Reconstruction Team ISAF per i programmi di sviluppo locali. Per questo, è sfuggito a undici attentati. Dopo tre tazze di tè, saliamo sulla terrazza che funge da tetto dell’edificio, e con ampi gesti ci mostra i confini del suo distretto delineati da questa montagna o quella cittadina, ci indica dove sono i campi di melograno e i frutteti, e dove vuole costruire un canale o una strada.

I mujaeddin che hanno combattuto per decenni e ora devono mantenere la pace. Gli esuli che hanno vissuto all’estero e vogliono portare un po’ di modernità in Afghanistan. I capo tribù che mescolano opacamente potere personale, tribale, militare, politico, economico. I giovani che non parlano inglese ma hanno l’entusiasmo e il sorriso di chi vuole costruire un Afghanistan migliore e crede che ci stia riuscendo. Sono tutti parte della società afgana, come lo sono anche i Talebani, e da loro più che dagli internazionali dipende il futuro dell’Afghanistan.