Sfogo appassionato e ragionato di un militante della destra non tarocca

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Sfogo appassionato e ragionato di un militante della destra non tarocca

04 Dicembre 2009

Davanti agli occhi l’ultimo editto digitale; tra le mani una matita che da lì a poco verrà martirizzata. Il tempo di finire di leggere e la matita una diventa trina: spezzata in tre parti, vittima di una rabbia non cieca. Non fosse così, il pezzo di legno rosso sarebbe stato segato in due dall’ira che non conosce misure. Sarebbe bastato piegare le due estremità, istinto puro, per fare due matite sgarrupate. Ma non è così: la rabbia ispirata dall’indignazione è protesta che vuole mantenere credibilità; non delirio che annichilisce, contro il quale peraltro si scaglierebbero gli artisti dell’edittificio. Loro, gli “equilibrati”, che hanno espunto la rabbia dalla credenza delle reazioni, perché troppo saprebbe di “destra normale”. Sono a tal punto transgenici che pensano che perfino la rabbia sia espressione di virilismo fascista. Un tempo si cavalcava la tigre; oggi si trotta sull’ameba chiamandola ancora tigre. Trucco raffinatissimo.     

Sono stanchi i destrorsi coraggiosi, quelli che hanno ancora il fegato di leggere le grida dell’edittificio. Si allude alla Fondazione, ovviamente, l’organo dei post-futuristi che sognano il centrone con generose sbandate a sinistra. Chiamandolo destra, trucco raffinatissimo.

I destrorsi militanti sono indignati per avere investito tempo, soldi e soprattutto passione per un capo nella migliore delle ipotesi volubilissimo; nella peggiore, disposto a giocarsi il blasone di famiglia per rancori epidermici o per calcoli sballati.

E’ comprensibile, allora, che al termine dell’ultima riga la stanchezza ben calibrata porti a istruire la mano e a spezzare la grafite: l’ultimo editto invitava i “beoti” che hanno creduto nell’identità – dicevano fosse una cosa di Destra – a riaprire i libri e a cavare l’anello dal naso. L’ultima patente di presentabilità, culturale e politica, i travet dell’edittificio l’hanno negata agli arditi che hanno osato applaudire per l’esito del referendum elvetico. “Volete che un fazzoletto di terra come la Svizzera – hanno chiesto loro – venga addobbato con decine di minareti?”. Risposta chiara: no. Ma anche le risposte nette, un tempo vanto del “pensiero forte”, le hanno trasformate in vizio da paranazisti. Anche i dispensatori di patenti prima rispondevano semplicemtente “no”; ora quello stesso monosillabo è diventato un più incisivo “si-cerchino-ad-ogni-costo-ampie-maggioranze-trasversali-per-arrivare-a-proferire-un-vibrante-NI”.
Minareti e spatuzzi, e caserme e impunità producono un mix non più tollerabile. I destrorsi originali, nel senso di quelli non taroccati (da non confondere con gli attuali “originali”, molto singolari) trovano riprovevole che si permettano di dare del pisquano oscurantista a chi osa mantenere le proprie idee; a chi le conserva mutandole con giudizio e non le tritura in un frullatore, riducendole a poltiglia informe, per farle meglio digerire all’oppositore che ringrazia. A chi non chiede di mettere i sigilli a tuttiele stanze in cui si invoca Allah; a chi non vuole cancellare il diritto alla preghiera sul lavoro; a chi, però, pensa sia culturalmente indecente tifare per i minareti e non spendere una parola per i cristiani crocifissi, bruciati vivi, forati dai proiettili nelle terre del musulmanesimo più oltranzista.

Giusto, sacrosanto, difendere su tutti i terreni il principio che muoveva Giovanni Falcone: “Noi, gente onesta, non massacriamo un mafioso per vendetta. Noi non siamo come loro”. C’è una soglia da non superare però – nello specifico del tema – nella sopportazione dell’assenza di reciprocità religiosa. Oltre la liberalità, infatti, si situa la negazione in radice della credibilità, lo scadimento nel ridicolo.

Il trucco raffinatissimo, allora, sta nel continuare a chiamare Antonio uno che, a forza di strappi, si è deciso di far diventare Deborah. Non si spiega altimenti l’uscita baldanzosa del direttore del megafono della Fondazione che, premettendo di stare a destra non da ieri, con invidiabile disinvoltura afferma: “In questa destra mi ci ritrovo appieno”. C’è un limite, tuttavia, al considerare gli elettori di un tempo delle sagome fantozziane di cui prendersi gioco (beata illusione). Allo sfruculiare la loro pazienza e la loro tolleranza verso la desacralizzazione dei “dogmi” politici e culturali di sempre. C’è un limite alla sopportazione di vedere la medesima, gloriosa testata – che fino a pochi lustri fa difendeva la patria, l’identità, i valori non negoziabili, i ragazzi morti per essi – travestita da foglietto radicaloide. E’ sempre il principio del finto Antonio ad essere applicato.

La direttora del quotidiano con vendite da giornale di istituto ribalta la realtà, con virtù acrobatiche sopraffine, dichiarando che si vuole “esasperare” il suo capo e che bisogna piantarla di dare lui del “compagno”. Peccato che a farlo non siano gli alleati “ultrà” – come sostiene un altro professionista dell’inversione – ma Sabrina Ferilli (vuoi mettere la soddisfazione?) e “Il Fatto” di Travaglio che, dopo l’intemerata su spatuzzi e minareti titola a nuove colonne “Fini capo dell’opposizione. Parole pesantissime che il Partito democratico non osa dire”.

Se credono, continuino pure sulla strada del suicidio culturale e politico, ma lo chiamino col suo nome. Continuino a non interrogarsi sulle cause che hanno spinto pancia, cuore e neuroni della destra a scegliere chi, qualche hanno fa, non avrebbero indicato neanche con una rivoltella alla tempia: il palazzinaro di Telemilano e non più il figlioccio di Giorgio Almirante. E’ o non è un dato politicamente rilevantissimo?

Seguitino a chiamare Antonio chi ormai ha (quasi tutte) le fattezze di Deborah, ma ricordino i profeti della destra fasulla che finora nessun sedano marcio gli è piovuto in testa perché il loro ras ha un elegante pretesto istituzionale per evitare le piazze. Quando torneranno tra la gente, e si misureranno col voto, sentiranno il lezzo degli ortaggi ammuffiti, quello che non si sente mai alle presentazioni dei libri, ai convegni, alle “colazioni di lavoro”.

La faccenda minareti prelude a una battaglia culturale lacerante: solo questo, si fa per dire. Cosa diversa è la questione spatuzzi: se la disponibilità ad avvelenare i pozzi degli alleati è così ampia, difficilmente il disgusto potrà tradursi ancora nelle dolci ammonizioni fin qui comminate.
In pubblico potranno impegnarsi quanto vogliono a chiamare Antonio la neo-Deborah, ma fuorionda la verità emerge sempre.