Si accende la rissa tra i candidati del Pd ma Fassino prova a fare il pompiere
29 Luglio 2009
Nel frattempo il dibattito pre-congressuale continua a tracimare dagli argini della normale dialettica politica. E così, in una sequenza di stop and go, i maggiorenti del partito tentano di smussare gli angoli e di invitare tutti alla calma, anche se basta una battuta o una provocazione a distanza per far saltare lo schema e riaccendere la rissa. Dopo che nei giorni scorsi Rosy Bindi aveva invitato Francesco Rutelli a far le valigie, e Debora Serracchiani aveva esortato a mandare quanti dissentono dal segretario ad attaccare i manifesti, ad accendere la nuova scintilla è Beppe Fioroni, deciso nel rivendicare alla mozione Franceschini la rappresentanza del rinnovamento. ”Qualcuno si offende quando parliamo di nuovo contro vecchio – sostiene – ma il nuovo è esattamente la percezione della missione inedita dei riformisti, mentre il vecchio è il rifugio securizzante nel già visto”. Immediato il fuoco di fila contro Fioroni da parte degli esponenti che hanno scelto Bersani, pronti anche a imputargli “la disfatta organizzativa ancor prima che politica del Pd”, visto che sotto la segreteria di Walter Veltroni è stato a capo dell’ufficio organizzativo. A tentare la mediazione è, a quel punto, Piero Fassino che già preoccupato nei giorni scorsi dalla piega che sta prendendo il confronto, si attacca al telefono e chiama i rappresentanti delle due principali mozioni ai quali chiede ”di fare stare calmini” i propri sostenitori, per non disorientare iscritti ed elettori. Ieri sera, però, Massimo D’Alema, dalla sala del cinema Apollo di Ferrara adibita questa sera a quartier generale pro-Bersani, è tornato ad affilare le armi e a mostrarsi critico sulle primarie. Secondo l’ex premier "negli Usa ci sono per eleggere il presidente degli Stati Uniti, non il presidente del Partito Democratico". L’ “ostinazione” per le primarie per l’ex premier va di pari passo con “l’idea di un partito fluido non si sa con chi”. Perché “essere iscritto a un partito politico non è un marchio di infamia – attacca D’Alema – ma un segno di partecipazione attiva alla vita sociale”.
Una convinzione del tutto diversa da quella di Franceschini che ribadisce: “Fare un partito solido in questo decennio non vuol dire prendere i modelli di 50 anni fa, perché adesso le modalità di partecipazione alle battaglie politiche si sono moltiplicate: noi dobbiamo conservare quello di buono che c’era in quel modello, come avere migliaia di militanti. Serve un partito radicato, ma che sia più aperto a chi non faceva parte dei gruppi dirigenti di Ds e Margherita e fatto da circoli che affrontino i problemi veri dei territori, non ripiegati a parlare di loro stessi”. Sullo sfondo resta senza risposta – anche da parte degli stessi ex Ds che appoggiano Franceschini – la questione posta dal segretario in carica, quella del patrimonio immobiliare dei Democratici di sinistra, ereditato dal Pci, che a suo dire dovrebbe passare al Partito Democratico. ”Il Pd – aveva spiegato Franceschini – è un soggetto giuridicamente nuovo e non ha ereditato né attivi né passivi. Ci sono fondazioni Ds con immobili, credo che, al netto dei debiti pagati, tutto il patrimonio e tutte le risorse debbano andare a finire al Pd, che abbiamo fatto tutti insieme. Non ci sarebbe ragione né giuridica né politica perché ciò non accadesse”. Il problema patrimoniale, insomma, esiste. Anche se finora né Bersani né tantomeno Fassino hanno dato seguito al rilievo del candidato alla segreteria proveniente dalla Margherita. E c’è da scommettere che in queste settimane ci si soffermerà più sul “comune” patrimonio di storia e valori piuttosto che sulle sedi e gli immobili, ancora in regime di separazione dei beni.