Si allontana la conferenza di pace tra israeliani e palestinesi
18 Ottobre 2007
Ce l’ha messa tutta Condoleezza Rice.
Domenica è atterrata in Medio Oriente, e subito ha incontrato i negoziatori
palestinesi e israeliani. Martedì ha fatto una scappata in Egitto, a caccia del
sostegno di Mubarak. Ieri si è nuovamente messa attorno a un tavolo, prima con
Abu Mazen e poi con Olmert e la Livni, ministro degli Esteri israeliano (da
domenica ufficialmente a capo dei negoziatori di Tel Aviv). Niente da fare: le
distanze tra i contendenti restano abissali. In un sondaggio pubblicato negli
ultimi giorni, il 56% degli israeliani si è detto “pessimista” sulla
possibilità di un accordo di pace. E la data della Conferenza, intanto, scivola
verso dicembre.
Le premesse del viaggio non erano delle
migliori: la stessa Rice, scesa dall’aereo, aveva dichiarato i non aspettarsi
molto. Scaramanzia? Forse anche quella, ma già negli incontri di domenica e
lunedì i nodi sono venuti al pettine. La questione è semplice: Israele non ha
la minima intenzione di stilare un documento congiunto che lo vincoli a
scadenze precise, mentre Abu Mazen ha detto chiaramente che senza un testo
preciso ad Annapolis i palestinesi non ci andranno.
Qui entra in gioco la Rice: il
segretario di Stato americano, in questo caso più vicino alle posizioni di
Abbas – il sogno di Bush, del resto, è quello di mettere fine al conflitto
israelo-palestinese prima che scada il suo mandato presidenziale – ha cercato
di convincere Olmert e la Livni ad impegnarsi maggiormente nell’indicazione di
date precise. Niente da fare: Olmert sarebbe pure disposto a cedere ai
palestinesi i quartieri arabi di Gerusalemme, ma non gli si chieda un
calendario vincolante. Attenzione, non si tratta d’indisponibilità: israeliani
e palestinesi hanno piuttosto una visione completamente diversa della
conferenza di Annapolis, che rappresenta un inizio dei negoziati per i primi e
un traguardo definitivo per i secondi.
Condoleezza non si è persa d’animo, e martedì
ha lasciato momentaneamente i consueti interlocutori per far tappa in Egitto.
Se Olmert e Abu Mazen sono ancora lontani, deve aver pensato, tanto vale
ingraziarsi uno dei principali stati arabi che prenderanno parte alla
conferenza del Maryland. E nella terra delle piramidi la Rice ha avuto miglior
fortuna, strappando il sostegno di quel presidente Mubarak che nelle scorse
settimane aveva espresso profondo scetticismo sulla conferenza organizzata
dagli americani. Il ministro egli Esteri egiziano, Ahmed Aboul Gheit, ha
affermato infatti che “Condoleezza Rice ci ha aiutati a comprendere gli
obbiettivi americani”, concludendo che “ci sentiamo incoraggiati da
quello che ci ha detto la Rice e le abbiamo promesso di aiutare le parti per
raggiungere l’obiettivo, che è il lancio di negoziati che portino alla
creazione di uno stato palestinese su parte dei territori della
Palestina”.
Ottenuto il beneplacito egiziano, il
segretario di Stato americano è poi tornato nei territori palestinesi, da dove
provenivano segnali di buon auspicio. Mentre la Rice era da Mubarak, infatti, i
ministri del turismo israeliano e palestinese si sono incontrati: sul tavolo,
il progetto di promozione turistica comune. Spiragli anche da parte di Hamas:
Ghazi Hammad, portavoce dell’ex premier destituito Haniye, ha fatto marcia
indietro dichiarando che “Hamas non è più contraria a negoziati politici
con Israele”. Dichiarazioni da prendere con le pinze, vista la volubilità
del gruppo, ma pur sempre qualcosa.
Ma ieri è tornato lo stallo. In
mattinata la Rice ha visitato la Chiesa di Betlemme, dove ha acceso un cero
nella speranza che la religione possa aiutare i negoziati. E dopo la commozione
– “Essere lì, nel luogo di nascita del Signore e Salvatore Gesù Cristo, è
stata un’esperienza davvero speciale e commovente” ha dichiarato
Condoleezza, molto religiosa – è tornato il momento dei negoziati. Prima con
Abbas, poi con la Livni. Stesse richieste, stesse questioni. Secondo Abbas,
Israele perde tempo: “Non possiamo andare alla conferenza ad ogni costo.
Abbiamo detto alla Rice che non abbiamo molto tempo, dobbiamo far fruttare ogni
minuto”. Secondo Olmert, invece, porre dei vincoli temporali troppo
stretti sarebbe solo un ostacolo sulla via di un accordo definitivo. A
complicare il tutto, infine, una dichiarazione del presidente israeliano Shimon
Peres: secondo quanto riportato da “Israel Radio”, il presidente
avrebbe smentito la possibilità di dividere Gerusalemme; secondo Peres, i
luoghi sacri dovranno in ogni caso restare sotto il controllo israeliano. Una
sortita in contraddizione con le aperture di Olmert, che negli scorsi giorni
aveva ventilato l’ipotesi di cedere ai palestinesi il controllo dei quartieri
arabi così da poter avanzare “richieste legittime” su altri fronti.
Nessuno sbocco in Medio Oriente, dunque?
Una soluzione sembra lontana. Tanto che una fonte palestinese, citata
dall’agenzia di stampa cinese Xinhua, ha divulgato la notizia secondo la quale
Condoleezza Rice inviterà a Washington i negoziatori d’ambo le parti. Una sorta
di viaggio americano per assaggiare l’aria che si dovrà respirare in Maryland,
nella speranza di un accordo che appare irraggiungibile sul terreno
mediorientale.
Un passo avanti, uno indietro. Vanno
così le cose nella regione palestinese. E gli stessi eventi sembrano ricalcare
i difficili negoziati. Ieri è stato lanciato un censimento della popolazione
palestinese, il primo da dieci anni a questa parte: un segno della volontà di
negoziare una pace che veda due stati convivere pacificamente, con regole
chiare. Ma sempre ieri, questo il passo indietro, la Jihad islamica ha
rivendicato l’uccisione di un soldato israeliano negli scontri divampati nei
pressi di Khan Yunes nella Striscia di Gaza. Ordinaria amministrazione, forse:
ma quanto di più lontano ci sia nella ricerca di una pace duratura.