Si chiude a Washington il “rally” contro le tasse dei Tea Party
16 Aprile 2010
Mancava la ninfa egeria Sarah Palin al rally di Washington approdo finale, a due passi dalla Casa Bianca e Capitol Hill, del Tea party express che in venti giorni ha toccato una cinquantina di città ai quattro angoli degli States per difendere lo stile di vita americano dalle incursioni del "comunista" Barack Obama. A dare la linea ad alcune migliaia di "patrioti" nel giorno in cui gli americani sono alle prese con il pagamento delle tasse ci ha pensato Michelle Bachmann, deputata del Minnesota, stella in ascesa del firmamento repubblicano. Bersaglio numero uno Obama, con slogan e parole come pietre: "C’è un comunista alla Casa Bianca","Governo gangster", "Sappia che ha il nostro fiato sul collo e non la passerà liscia" e "morte alla Fed".
Bachmann accusa Obama e i democratici di volere espandere il ruolo dello stato nell’economia e impadronirsi della sanità, dell’energia e della finanza e invita i veri conservatori a stringersi alle prossime elezioni di mid term attorno ai candidati libertari alla Ron Paul per tradurre nei fatti il dettato autentico della Costituzione. Al rally non c’era alcun leader del partito repubblicano. Anzi, Bachmann mette in guardia contro alcuni deputati del Gop che sono amici dei tea party ma anche parte integrante dell’establishment e dunque troppo contigui con il potere washingtoniano. Una conferma è arrivata da Madison nel Wisconsin dove alcuni gruppi di questo movimento di rivolta contro le tasse hanno boicottato la marcia perché al termine avrebbe parlato l’ex governatore Tommy Thompson ritenuto un esponente del vecchio modo di fare politica.
Il grido finale che Bachmann e gli altri oratori levano sotto le mura della cittadella politica è: "Riprendiamoci i soldi che ci hanno sottratto. Riprendiamoci questo Paese". Obama e i democratici accusano questo movimento di essere ferocemente chiuso a difesa dei privilegi e contrario ad una redistribuzione del redito in favore delle classi più svantaggiate e allineano questi dati: la nuova Amministrazione ha abbassato le tasse federali per 173 miliardi. I tea party nati alla politica per protestare contro il piano di stimoli all’economia sono il fenomeno più importante dopo l’avvento di Obama alla Casa Bianca. Accolti con una qualche sufficienza dagli analisti segnatamente quelli liberal che li confinano in una dimensione quasi prepolitica. A riscattarli una indagine congiunta di New York Times e Cbs secondo cui due americani su dieci si riconoscono in questa rivolta (il loro peso politico ha prodotto il miracolo Scott Brown che a gennaio ha conquistato al partito repubblicano il seggio senatoriale del Massachusetts appartenuto per decenni a Ted Kennedy) e ad una più attenta analisi i "patrioti" non sono proprio quei razzisti estremisti come vengono raccontati da certa stampa.
Insomma non solo "red neck" come li chiamano qui, tipi rurali poco aperti del Midwest, ma ad animare i tea party sono soprattutto americani bianchi con un buon livello di istruzione e di reddito, certo risolutamente contrari ai salvataggi delle banche, allo stimulus plan, all’"Obamacare", ma anche insoddisfatti dei rappresentanti repubblicani che non sarebbero abbastanza conservatori. Classe medio alta, toccata dalla crisi, timorosa e convinta che Obama finirà col pagare le riforme soprattuto quella della sanità con un ulteriore aumento delle tasse. In cima ai suoi pensieri i problemi della vita concreta, l’economia, più che i values etici, le questioni centrali della destra religiosa care a Sarah Palin per la quale, almeno stando al sondaggio, questi gruppi non vanno particolarmente in brodo di giuggiole. A questa rivolta guardano con preoccupazione Obama e i democratici perché a novembre si vota per rinnovare la Camera e un terzo del Senato. Molti deputati e senatori democratici non si ripresenteranno, temendo di andare incontro a sicura sconfitta con gli elettori moderati decisi a presentare il conto per l’odiata riforma. I tea party sono stati decisivi in tutti i test elettorali degli ultimi mesi, rianimando un partito repubblicano che sembrava finito allo sbando dopo l’insediamento del primo presidente afroamericano.
La Casa Bianca allora ha forzato i tempi e ha giocato la carta della riforma sanitaria e conta di cambiare il corso delle cose, convincendo gli americani che era la cosa giusta da fare e che un Paese come l’America non poteva lasciare senza assistenza 32 milioni di persone. Obama conta di trasformare la riforma nella Waterloo del partito repubblicano anziché in quella del partito democratico. Come che sia, la riforma ha segnato un cambio di passo della presidenza che si muove adesso a tutto campo con indubbi successi dal piano per le prospezioni petrolifere off shore al trattato Salt due con la Russia per la riduzione degli armamenti strategici offensivi, fino al summit sulla sicurezza nucleare che ha riunito a Washington una cinquantina di capi di stato e di governo. I sondaggi però dicono che aumenta il numero degli americani contrari alla riforma sanitaria (adesso sono 50 su cento) e ad orientare le scelte degli elettori , di là dai succesi di immagine sui temi nucleari, saranno i dati dell’economia che per il momento conosce un discretta ripresa senza apprezzabili risultati in termini di nuovi posti di lavoro.