Si parte dalla “messa in prova” per migliorare il diritto penale
28 Novembre 2008
“Conosciamo tutti gli inconvenienti della prigione, e come sia pericolosa, quando non è inutile. E tuttavia non ‘vediamo’ con quale altra cosa sostituirla. Essa è la detestabile soluzione, di cui non si saprebbe fare a meno. Questa ‘evidenza’ della prigione dalla quale ci distacchiamo a fatica, si fonda prima di tutto sulla forma semplice della ‘privazione di libertà’. Come potrebbe la prigione non essere la pena per eccellenza in una società in cui la libertà è un bene che appartiene a tutti nello stesso modo e al quale ciascuno è legato da un sentimento ‘universale e costante’? La sua perdita ha dunque lo stesso prezzo per tutti; assai più dell’ammenda, essa è castigo ‘egalitario’”.
E’ quanto scriveva Michel Foucault nel suo “Sorvegliare e punire”. Queste riflessioni del filosofo francese appaiono straordinariamente attuali, tanto più se si riflette su quanto negli ultimi venti anni si sia lavorato – peraltro senza esito – per individuare alternative efficaci alla pena detentiva. Le due ultime Commissioni di riforma del codice penale, presiedute da Carlo Nordio e Giuliano Pisapia, avevano, sia pure con talune differenze, rimodellato completamente l’istituto della pena, muovendo dall’assunto che questa, per essere efficace, deve essere certa e sicuramente applicata a tutti coloro che sono stati condannati con sentenza definitiva. Accanto alle pene restrittive della libertà personale erano state così, finalmente, previste pene principali di diversa natura: interdittive, prescrittive e ablative.
Si trattava per il diritto penale italiano di una sorta di rivoluzione Copernicana che, se avesse avuto sbocco nell’approvazione del disegno di legge da parte del Parlamento, avrebbe certamente aiutato a condurre a soluzione i gravi problemi che affliggono la giustizia penale nel nostro paese.
In realtà, nel settore del diritto penale sostanziale è difficile immaginare oggi riforme, che non siano di sistema, realmente efficaci e risolutive. Le polemiche sorte recentemente sulla proposta di generalizzare, sia pure con riferimento ai reati di minore allarme sociale, l’istituto della sospensione del processo con messa alla prova, costituiscono la migliore prova di ciò.
Indubbiamente questo istituto, introdotto nel 1988 nel processo penale minorile, ha dato eccellenti risultati nello specifico ambito della delinquenza giovanile.
Ma va rammentato come il suo presupposto logico e giuridico sia appunto rappresentato dalla circostanza che, trattandosi di un ragazzo, la commissione di un reato non può essere considerata sintomatica di una scelta di vita definitiva. Inoltre, la concessione della misura è fondata nel processo minorile su una decisione del giudice che deve svolgere, a questi fini, una attenta indagine sulla personalità del reo.
L’idea di estendere ai reati di criminalità “medio-piccola” la messa alla prova, legandola alla richiesta dell’imputato, in funzione deflattiva del numero dei procedimenti, deve, quindi, essere considerata alla luce delle specificità dell’istituto e della circostanza che il suo ancoraggio ai limiti edittali di pena dei reati, anche se non elevati, potrebbe non risolvere tutti i problemi.
In particolare, sembrerebbe di buon senso escludere un beneficio del genere in tutti i casi in cui il reato sia stato commesso (al di là della pena comminabile) con violenza o minaccia, permettendo al giudice di derogare al divieto solo in quei casi in cui risultino elementi tali da far sensatamente escludere la possibilità che vengano reiterate condotte del genere.
Il problema– non bisogna nasconderselo – è di carattere generale e se l’utilizzo parsimonioso dello strumento penale e detentivo deve senz’altro considerarsi conforme al principio dell’extrema ratio, che rappresenta uno dei capisaldi del diritto penale moderno, non possono, tuttavia, essere dimenticate le esigenze di sicurezza dei cittadini, di cui le istituzioni debbono essere capaci di farsi carico.
Insomma, pur condividendo l’idea di un grande giurista tedesco, Klaus Roxin, che sia necessario non tanto avere un diritto penale migliore, quanto immaginare qualcosa di meglio del diritto penale, almeno per adesso è importante, nella elaborazione delle politiche criminali, continuare a prendere seriamente in considerazione le esigenze di chi, di un reato, è già rimasto vittima.
*Magistrato, vice segretario nazionale di Magistratura Indipendente