Si spengono le luci su Yangoon, ma i monaci continuano a morire

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Si spengono le luci su Yangoon, ma i monaci continuano a morire

04 Ottobre 2007

I massacri del regime di Myanmar sono scomparsi
dalle prime pagine di quasi tutti i giornali. E non solo italiani. Persino il
compassato International Herald Tribune ha retrocesso il genocidio della giunta
comunista del paese nelle foliazioni interne. Dopo due giorni di riflettori, le
persecuzioni dei monaci birmani hanno lasciato il passo alle notizie di più
stringente attualità, con un’unica eccezione: Der Spiegel. Solo sul quotidiano tedesco,
infatti, è possibile leggere le corrispondenze dell’ultimo inviato occidentale
a Yangoon, già Rangoon, rimasto in prima linea e senza identità, per il timore delle
rappresaglie del regime. “Der spiegel”, che pubblica gli articoli anche on line
e in inglese, ha deciso, infatti, di comune accordo col giornalista, che le sue
cronache ormai quotidiane dal fronte non saranno firmate. L’anonimo corrispondente
dovrà, almeno per ora, rinunciare alla fama e alla notorietà. Anche se,
continuando ad informare come ha fatto sinora con questa dovizia di
particolari, prima o poi qualcuno dovrà ricordarsi pure di lui per una
nomination al premio Pulitzer.

Solo dai suoi reportage l’opinione pubblica
mondiale può apprendere in questo momento la reale entità degli eccidi, che
sarebbero nell’ordine delle migliaia di persone. In un articolo intitolato “Vengono
di notte per  uccidere i monaci”,
pubblicato nella corrispondenza di due giorni fa, l’anonimo inviato dello
Spiegel illustra con sequenze da film dell’orrore la dinamica dei
rastrellamenti: “era circa mezzanotte quando il lungo convoglio di veicoli
militari entrò nel distretto, le macchine contenevano ufficiali di polizia dei
reparti di anti sommossa, i cosiddetti “Lome-ten”, si tratta di unità di
gangster e di ex detenuti che fanno il lavoro sporco per il regime. Circondano
un monastero nella strada Weiza Yandar e tutti i 200 monaci che ci vivevano
vengono costretti a stare in piedi in una stanza mentre le forze di sicurezza
gli sbattono ripetutamente la testa contro il muro, quando ormai sono ridotti
una poltiglia sanguinante vengono raccolti e portati via nei camion.. così in
una sola notte hanno ucciso oltre cento monaci”.

Nel resto della corrispondenza vengono raccolte
le testimonianze di chi ha assistito alle deportazioni nei lager a cielo aperto
costruiti nei campi sportivi come nel Cile di Pinochet. “Uno di essi – dice un diplomatico che parla
anche lui protetto dall’anonimato – è situato nel vecchio campo dove si
svolgevano le corse dei cavalli all’epoca degli inglesi, tra la 50 esima e la
51 esima strada di Yangoon. Ma la giunta in questi giorni ne ha allestiti in
fretta e furia almeno altri tre. Un altro che si conosce è vicino all’aeroporto
internazionale di  Mingala e un altro
ancora è stato costruito sui terreni del Yangoon institute of technology. Lì i
monaci e gli altri dimostranti vengo ammassati e tenuti senza cibo e acqua per
giorni..”

Non si sa ancora nulla di quanti ne stiano
morendo in queste condizioni, l’unica cosa che si sa è come i monaci si
difendono da questo massacro, con la preghiera e la meditazione, così come il buddismo
ha insegnato loro sin dal 500 prima di Cristo.

Naturalmente anche l’edilizia carceraria in
queste settimane  ha avuto il proprio
sviluppo: nel nord ovest della ex capitale, vicino alla prigione Insein. In alcuni
prefabbricati sono state edificate 300 celle da tre metri per tre e in ognuna
di esse sono stipati dai cinque ai dieci monaci. Li fanno vivere e soprattutto
morire come delle sardine mentre i giornali europei già iniziano  a stufarsi di dare loro le prime pagine. Per i
monaci birmani oramai l’informazione viaggia quasi esclusivamente attraverso i
reportage dell’anonimo corrispondente tedesco.