“Si sta dalla parte delle donne anche aiutandole a non abortire”

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“Si sta dalla parte delle donne anche aiutandole a non abortire”

09 Gennaio 2008

Paola Bonzi ha 64 anni. È cattolica, ma non radicale.
È impegnata, ma non militante. Per motivi biografici non è potuta essere
sessantottina né femminista. Eppure tutto si può dire di lei tranne che non sia
dalla parte delle donne e che non combatta per far valere i loro diritti. Lei
non scrive sui giornali. Non si interessa alle polemiche ideologiche, tanto
meno a quelle politiche. E non ha neppure detto sì alla moratoria sull’aborto
di Giuliano Ferrara. Lei milita per la sua causa per “ragioni strettamente personali”.
Lo decise più di quarant’anni fa quando qualcuno le diede un’opportunità. Quando
tra l’avere un figlio o perdere la vista lei scelse la prima opzione – sono quarant’anni che Paola è non vedente – anche
grazie alle parole di un medico che allora le fece capire che il diritto alla
vita merita di avere la meglio su tutto.

Oggi Paola di figli ne ha due reali e migliaia “virtuali”. Sono i
figli e le figlie di quelle madri che lei ha aiutato a scegliere di non
abortire, grazie al Centro di aiuto alla vita della Mangiagalli di Milano. Un
esempio virtuoso che negli ultimi tempi di dibattito mediatico e
politico-culturale sull’aborto è balenato più di una volta sulle pagine dei
giornali, ma che per 23 anni ha lavorato nell’ombra e nella difficoltà di
andare avanti con le sole proprie gambe. Paola (le piace così) al CAV della
Mangiagalli non ci lavora da novembre del 2007. “Non ce la facevo più a vedere
tante donne in difficoltà che non ero in grado di aiutare a tenere i loro figli
solo per motivi economici. Non ho voluto fare alcun atto dimostrativo.
Soffrivo troppo”. Lei è così. Prende tutto sul personale. Ma la sua causa, che
ormai interessa oltre 1500 donne l’anno, deve aver scosso le coscienze
pubbliche. E sia la Regione Lombardia sia il Comune di Milano hanno deciso di
stanziare dei fondi. Pochi ma simbolici (500mila euro la prima, 250mila il
secondo) per un centro che ogni anno ha bisogno di circa un milione e mezzo di
euro per lavorare. Al resto ci pensano i consulenti del Centro, che raccolgono%0D
finanziamenti dai privati e vanno avanti.

“Col CAV cerchiamo di fare quello che lo Stato non fa: tutelare la
maternità. Il paradosso è che esiste una serie di “Norme per la tutela della
maternità” che tutti invece conoscono come legge sull’aborto…”. Al Centro le
donne possono trovare aiuto psicologico e materiale. “Alcune riusciamo anche
a sovvenzionarle economicamente. Non possiamo dare sostegni a pioggia o per
lungo tempo, ma aiuti mirati sì, anche se non oltre 18 mesi. Bastano poche
centinaia di euro per dare una possibilità a donne disperate. E io non sopporto
di non poter aiutare qualcuno per poche centinaia di euro”. 

Paola non parla mai di embrioni, feti, bambini. A lei stanno a cuore
soprattutto le donne. Sa che l’aborto non è un dramma, è un lutto per chi
abortisce. Sa che le donne hanno diritto ad una libera scelta. E che in quella
scelta dev’esserci anche la possibilità di non abortire. Conosce i dolorosi
strascichi psicologici che si porta dietro chi decide di abortire. Vede
quotidianamente donne depresse, che abusano di sostanze stupefacenti, che
arrivano persino a tentare il suicidio solo perché non riescono ad elaborare un
lutto che si portano dentro. Ed è consapevole che bastano poche parole dette e soprattutto
ascoltate al momento giusto per stare di qua o di là. “Abbiamo pochi minuti per
far capire alle donne incinta che non abortire è una possibilità. E in quei
pochi minuti, ti assicuro, ci giochiamo l’universo. Le donne che arrivano al
centro lo fanno spontaneamente, perché hanno bisogno di aiuto. E noi siamo
pronte ad aiutarle, qualsiasi strada alla fine decidano di intraprendere”. Lei sa
di combattere la sua causa da una posizione privilegiata, ed è anche convinta
che servono competenze e professionalità specifiche per aiutare chi vive la
difficoltà della gravidanza. “Essere incinta è una condizione difficile a
prescindere dalle condizioni in cui ci si trova. Ma molte di quelle difficoltà
che le donne percepiscono come insormontabili sono solo brutti sogni, che si
superano aprendo gli occhi sulla realtà. Sai quante donne, per lo più italiane,
pensano di abortire solo perché si convincono che avere un figlio rappresenti
un drammatico cambiamento di vita, perché non è il momento giusto, perché non
era previsto… Ciò che più conta è che gli aiuti alle donne incinta e in difficoltà siano
mirati e non standardizzati. Siano frutto della serietà professionale e dell’attenzione personale”.  

Oggi però molto è cambiato rispetto a trent’anni fa. Basta un dato.
Delle donne che si presentano al Centro di aiuto alla vita solo il venti per
cento è italiano. “E’ la cultura ad essere cambiata. Non è più come alla fine
degli anni Settanta e negli anni Ottanta, in cui l’aborto rappresentava una
scelta ideologica. Oggi chi va ad abortire lo fa prevalentemente per motivi
economici. Sono soprattutto le giovani straniere, che temono di perdere il
lavoro per un figlio non programmato. Ora come ora, almeno secondo la nostra
esperienza, almeno il 54 per cento di loro non abortirebbe se ricevesse un aiuto”.
 E allora i consulenti del CAV si prodigano come possono per dare
quell’aiuto di cui le donne hanno bisogno. 

E le polemiche politiche di questi giorni? Pur seguendole con la
stessa passione con cui opera Paola le accenna appena:  “Sono contenta perché mi sembra che
finalmente si ricominci a parlare dell’aborto, che qualcosa si stia muovendo.” E
nulla più. Non entra nel merito delle questioni abortisti contro antiabortisti;
moratoria sì moratoria no; cattolici contrapposti ai laici. Le interessa solo
che si faccia qualcosa per aiutare le donne. Non per questo vuol rimanere nel
cono d’ombra di chi lavora in maniera indefessa e da anni per una causa, senza capire
la dimensione pubblica di un problema come l’aborto. Per questo è stata
incaricata di organizzare un grande convegno sulla 194 e su molto altro. “L’appuntamento
“per sole donne” – ironizza Paola Bonzi – è fissato per la fine di gennaio a
Milano”. Ma si capisce che per lei ci sono parole che contano di
più di quelle pronunciate di fronte a centinaia di persone.