Siamo sicuri che il liberalismo e lo stato sono per definizione nemici?

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Siamo sicuri che il liberalismo e lo stato sono per definizione nemici?

30 Novembre 2007

Lo stato assistenziale fa pensare a
un obeso che si muove con sempre maggiore difficoltà ma non rinunzia a cibarsi
di ogni alimento che gli capiti sotto gli occhi. Giustamente la cultura
liberale teme questa bulimia nella quale
vede una insidia mortale per le libertà degli individui. Sennonché una parte
almeno di quanti si richiamano a Locke e a Jefferson sembrano contagiati dal
morbo che fu già di un nemico giurato del liberalismo, Jean Jacques Rousseau:
l’ottimismo antropologico. Per l’autore del Contratto
Sociale
, l’uomo nasce libero ed eguale ma dappertutto è in catene per colpa
di chi per primo parlò di “mio” e di “tuo”. Tra quanti, in qualche modo, ne
hanno subito il fascino, alcuni vedono l’origine delle sofferenze umane nel
sistema economico capitalistico, altri nell’anarchia internazionale, cioè nel
fatto che gli stati vivono ancora nella condizione selvaggia, in mancanza di
un’autorità mondiale che li costringa a sottostare a una stessa legge. Asportate
il tumore (il capitalismo, lo Stato 
etc.) e il malato guarirà per sempre. Vi sono, però, liberali vittime
della stessa illusione: le cose si disporrebbero secondo un ordine spontaneo,
se non ci fosse l’istituzione “che ci fa tanto feroci”, lo stato moderno. Per
loro l’obeso, lungi dal dover essere sottoposto a un’energica cura dimagrante,
va fatto morire d’inedia, in base al principio “più deperisce, meglio si sta”.

Pur consapevole che non c’è
un’ortodossia liberale accettata da tutti (non a caso il pensiero liberale
viene definito un’eresia), ricordo agli immemori che i classici dell’800
auspicavano, senza ombra di dubbio, uno stato limitato ma lo volevano solidissimo
e capace di picchiar duro nell’ambito delle sue competenze. Vale la pena citare
quanto scrive Tocqueville nella Democrazia
in America
del 1835, a proposito dell’accentramento: “Accentramento è una
parola che oggi tutti ripetono continuamente e di cui nessuno, per lo più,
cerca di precisare il significato. Vi sono, tuttavia, due specie di centralizzazione,
assai diverse tra  loro, che bisogna ben
distinguere. Alcuni interessi sono comuni a tutte le parti della nazione, come,
per esempio, la formazione di leggi generali e i rapporti del popolo  con gli stranieri. Altri
interessi sono particolari ad alcune parti della nazione, come, per  esempio, i problemi dei singoli comuni. Concentrare in uno stesso luogo o
in una stessa mano il potere di  dirigere
i primi, significa creare quello che chiameremo accentramento   politico. Concentrare  alla stesso modo il potere di dirigere i
secondi, significa creare quello che chiameremo accentramento
amministrativo.  […] Queste due specie di
centralizzazione si prestano un mutuo soccorso, si attirano l’una con l’altra;
ma non arriverei a dire che siano  inseparabili.  Al tempo di Luigi XIV la Francia ha visto il più
grande accentramento politico che si potesse allora immaginare, dato che lo
stesso  uomo faceva le leggi generali e
aveva il potere d’interpretarle, rappresentava la Francia all’estero e agiva
in suo nome. «L’Etat c’est  moi», era solito dire; ed aveva ragione. Tuttavia
al tempo di Luigi XIV l’accentramento amministrativo  era assai minore che ai giorni nostri. Oggi,
noi vediamo una nazione, l’Inghilterra, presso la quale  l’accentramento politico è portato al più
alto grado : lo Stato sembra muoversi
come un solo uomo, muove a sua volontà masse immense,  concentra e porta dove vuole tutta la forza
della sua potenza
” (sottolineatura mia). Altro che deperimento dello
Stato! La cura dimagrante non è finalizzata all’anoressia ma all’irrobustimento
dei muscoli: il grassone non deve diventare una larva umana ma un formidabile
atleta. Accenti non dissimili si trovano, del resto, in altri grandi liberali
del secolo d’oro delle ideologie. Si pensi a Benjamin Constant e al suo erede
Laboulaye, ai nostri Marco Minghetti e Francesco De Sanctis per non parlare dei
teorici inglesi e americani.

 In realtà, a pensarci bene, il fiore
dell’individualismo liberale, il mercato, la competizione regolata per il
potere e per il ‘posto al sole’ non sarebbero possibili senza la serra protetta
degli apparati statali, senza il monopolio dei mezzi coercitivi, senza la legge
vigente per tutti (erga omnes). Per quanto possa sembrar paradossale
alle orecchie dei fondamentalisti libertari, senza Thomas Hobbes, che non può
certo considerarsi  un teorico liberale
(con buona pace di Friedrich Meinecke), sarebbero impensabili i’quadri della
modernità’, l’efficace tutela dei diritti civili, le garanzie della libertà
etc. Ce ne stiamo accorgendo oggi in Italia : via via che deperiscono la forza
e l’autorità dello Stato e si moltiplicano i centri di potere a tutti i livelli
– economico, sociale, culturale, massmediatico etc. – i diritti individuali e
la legalità non solo non ne traggono giovamento ma ne vengono severamente
penalizzati. I nemici della ‘società aperta’, infatti, hanno compreso ciò che
il genio di Benito Mussolini aveva capito già all’indomani della rivoluzione
leninista: ovvero che un sistema economico collettivista è rovinoso e incapace
di reggersi senza la frusta zarista; meglio, pertanto, tenere in piedi l’odiato
capitalismo suscettibile di diventare una risorsa al servizio del regime. La
lezione sembra essere stata pienamente compresa: imprese, banche,
assicurazioni, giornali, canali televisivi ormai sono in gran parte infeudati
agli eredi di Gramsci e di Dossetti col risultato che in non pochi settori
della sfera pubblica regna l’arbitrio più assoluto che i giuristi di regime
hanno messo al riparo del ‘diritto mite’. Nella scuola, ad esempio, in cui i
docenti che abbiano superato un concorso pubblico superano appena il 5%! Ormai,
nelle nostre istituzioni pubbliche il potere dei burocrati – giacobini e
tirannicidi – è stato azzerato da quelle ‘associazioni dal basso’, i sindacati,
in cui  gli antistatalisti vedevano i
garanti del paradiso delle autonomie. Tutto ciò che viene dalla ‘base’, dai
cittadini liberi e responsabili che si associano per promuovere i loro
interessi, è diventato fonte di legittimazione; tutto ciò che sa di esami, di
meritocrazia, di disposizioni dall’alto (non importa se e quanto ragionevoli) è
riguardato, invece, come patologico, come possibile fonte di oppressione dei
diritti individuali.

 Ma siamo poi sicuri che il pluralismo allarga
l’orizzonte delle nostre libertà? Questo proliferare di enti decentrati, di
autonomie locali, di reti sociali, di iniziative spontanee, di servizi
privatizzati (anche quando se ne potrebbe fare a meno, in presenza di monopoli
naturali come le ferrovie) non sono la dimostrazione vivente che non importa il
numero di quanti prendono le decisioni destinate a influire sulla nostra
esistenza individuale ma importano i poteri effettivi dei decisori ? Il   liberale non vuole disperdere le acque del
potere tra mille rivoli ma limitarne la portata e farle defluire in argini
sicuri. Quando nelle grandi città del Nord si intesse tutta una serie di
collegamenti di confine tra  imprenditori
confindustriali ed esponenti di Rifondazione o dei Comunisti Italiani, in vista
(ovviamente) di appalti da concedere, di lavori da affidare a cooperative
amiche, di aree destinate all’ennesimo supermercato, ci si chiede che valore
abbia ancora un pluralismo che non sia tenuto in forma proprio dal vecchio,
bistrattato, Stato ‘accentratore’.

 No, la legalità  è una dimensione irrinunciabile del
‘progetto  moderno’.Sono gli apparati
amministrativi, le forze dell’ordine, i tribunali, la cultura dell’onore e
della lealtà – che a Edmund Burke sembrava il presupposto ineliminabile del
‘mercato – a preservare la società civile dall’invasione degli ultracorpi
ideologici e dallo scempio da essi fatto dell’ordine e della legge. In America,
ai tempi del maccartismo, le reti televisive temevano il ritiro degli sponsor
se qualche giornalista coscienzioso denunciava i metodi brutali del Senatore
del Wisconsin.”Capita quando la ricchezza delle nazioni è in mano ai privati”,
si diceva. Ma se i guadagni degli imprenditori rimasti  privati   dipendono dalle commesse pubbliche di giunte
‘vicine ai bisogni della gente’, l’effetto non sarà ancora più deleterio? Una
rete privata come la 7, nel presentare quasi ogni sera lo show di
Luzzatti, parla del clima politico che si respira in Italia (nonostante il
governo Prodi?) in maniera non dissimile da come avrebbe parlato dell’Argentina
di Videla un network nordamericano.
Ognuno è libero, per carità, di pensare e di dire quel che crede ma ci si
astenga dalle facili equazioni per cui più privati ingrossano il coro della
società pluralista più aumentano il livello e la qualità dell’informazione e
con essa le ‘garanzie della libertà’. Senza una “sfera pubblica” rigorosamente separata
dalla politica si avranno interminabili conflitti e ricomposizioni (anche
trasversali) tra blocchi politico-economici rivali ma non si avranno né la libertà
individuale né il mercato.