Sogno un’America in cui il Tea Party si stringa compatto attorno alla Palin

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Sogno un’America in cui il Tea Party si stringa compatto attorno alla Palin

26 Maggio 2011

Lo scriviamo e lo ripetiamo tutti ormai da un po’. Il Partito Repubblicano è per molti versi troppo seduto sui propri allori. Non ha ancora risolto (o, meglio, deciso se risolvere) definitivamente il contenzioso che tra amore e odio lo divide ancora e sempre dalla determinante sua constituency conservatrice. In lizza per le presidenziali del 2012 ci sono già troppi candidati uguali. Ancora non è invece emersa una figura rappresentativa di tutte le componenti di quel mondo variegato, unitaria, forte e decisiva onde battere definitivamente Barack Hussein Obama fra 16 mesi. E sì, i Repubblicani potrebbero davvero finire per regalarla loro la rielezione a quel tanto detestato avversario politico Democratico se non passeranno presto dal wishful thinking alla politica decisa dall’alternativa di governo.

Eppur qualcosa si muove. Lo notano i certamente non simpatetici Jim Rutenberg e Jeff Zelenby sulle pagine dell’ostile The New York Times del 25 maggio. Sarah Palin potrebbe decidere di candidarsi alle presidenziali.

Si è opportunamente notato che fino a ora nell’agone Repubblicano mancano figure risolutive, e qualcuno tra i notisti più acuti ha osservato che invece spiccano per assenza alcuni dei nomi più popolarmente eccellenti. Adesso potrebbe però essere diverso.

Dicono i due succitati reporter che i coniugi Palin avrebbero appena acquistato una dimora da 1,7 milioni di dollari a Scottsdale, Arizona, a breve distanza dalla residenza in cui si è stabilita una delle loro figlie, Britsol, accasatasi a Maricopa. Embè? Ebbene, potrebbe essere questo il quartier generale scelto da Sarah: l’Arizona è certamente più praticabile dell’Alaska per chi volesse farne la base di un’azione politica continua e nazionale. Ma sarebbe ancora poco. In più c’è che la Palin sta ricambiando, saggiando al meglio e ricostruendo il proprio staff. Consiglieri, speech-writer e quant’altri. Il mese prossimo dovrebbe andare persino in onda un documentario a lei dedicato, realizzato dal regista conservatore Stephen K. Bannon; con due corollari importanti.

Verrà trasmesso nell’Iowa, lo Stato da cui partono le prime consultazioni elettorali delle primarie e il tema è la brillante carriera di Sarah alla guida dello Stato dell’Alaska. Tutti ancora imperterriti i miei tre lettori? Ricordiamo allora, ancora una volta, che nelle presidenziali del 2008, al di là di ogni retorica stupida, di tutti i quattro candidati giunti al giorno dello scontro finale, John McCain e la Palin per i Repubblicani, i poi eletti Obama e Joe Biden per i Democratici, solo Sarah che era stata alla guida di uno Stato aveva rivestito un ruolo politico di tutto rispetto e di grande rilievo, in qualche modo assimilabile, nelle responsabilità e nelle competenze, certo servata distantia, ai compiti spettanti agli inquilini della Casa Bianca. Tornare a raccontare al Paese quella storia importante potrebbe dunque essere una mossa strategica enorme, senza rivali.

Ora, la Palin ha detto più volte che non avrebbe corso per le elezioni del 2012, ma un mucchio di americani non le ha mai dato retta. Sarah resta odiata da molti, ma pure da moltissimi amata. Tra i primi, figura certamente l’establishment del Partito Repubblicano, che la contesta, l’avversa assolutamente ricambiato, forse persino ne teme la totale incontrollabilità. Sarebbe dunque decisamente bello vedere come esso si comporterebbe qualora Sarah dovesse ‒ continuiamo a sognare ‒ decidere di scendere in campo, e ancora più interessante vedere cosa farebbe il gotha dei “professionisti” del partito qualora ella volesse e dovesse ‒ “inaspettatamente”, come Barry M. Goldwater (1909-1988) nel 1964 ‒ ottenere la nomination presidenziale a furor di popolo. Piaccia o no, la Palin rappresenta infatti frontalmente e direttamente la stretta finale della crisi grave in cui si dibatte da tempo il bipartitismo statunitense, a cui il movimento dei “Tea Party” ha contribuito uno scossone da manuale.

Forse tutto questo però non accadrà mai, o quantomeno non nei prossimi 16 mesi di vita politica statunitense che ci separano da quel 6 novembre 2012 in cui gli americani sceglieranno il loro prossimo presidente federale.

Volendo però indugiare ancora un poco sulle acque di questo beato mare delle ipotesi, affinché la Palin, una volta avesse mai deciso di disputare le primarie, potesse spuntarla sui suoi colleghi di partito, ma soprattutto sugli altri off-sider più cari alla constituency conservatrice di quanto mediamente lo siano i “professionisti” Repubblicani, occorrerebbe che i ranghi felicemente sparsi dei “Tea Party” e virtuosamente segmentati del “movimento” grassroots scegliessero di concentrarsi su di lei chiedendo al resto del mondo di fare un passo indietro. Anzi, meglio: di confluire tutti in un cartello unico che, una volta conquistata la Casa Bianca, restituisse a quei generosi candidati-moschettieri che avrebbero scelto il ritiro con onore onde convergere su Sarah ciò che essi si meritano, associandoli al governo.

Fantascienza, certo. Epperò il mondo intero è strapieno di gente che, e ben più di una volta, ha votato turandosi il naso per candidati graditi a metà onde battere gli avversari. E tutto della governatrice Sarah Palin si può dire tranne che sia se non altro esteticamente gradevole votare per lei…

Immaginate ‒ ammicco ‒ cosa sarebbero quel dì gli Stati Uniti guidati da un presidente così, forte della carica unitaria di un movimento colossale, i cui ministri fossero stati scelti fra i campioni della Destra già ora in lizza per le primarie aggiunti pure quelli che stan fuori ma meriterebbero a pieni voti di star dentro, e i maleodoranti “professionisti” del compromesso fuori.

Dite che mi sono fatto prendere la mano? Forse. Ma sono o no gli Stati Uniti il Paese delle opportunità, dove tutto è possibile?

 

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute e direttore del Centro Studi Russell Kirk