Solo in Italia la class action non tutela i consumatori
17 Novembre 2007
Passa per un voto al Senato la norma sulla class action, introdotta nell’impianto della finanziaria con un emendamento dei senatori Bordon e Manzione, modificato ben tre volte prima di approdare in Aula. La norma contiene 13 commi e ripropone, grosso modo, il ddl Bersani che lo scorso marzo è stato affossato in commissione Giustizia alla Camera. Si tratta di una novità di grande importanza e di portata rivoluzionaria nel sistema giuridico italiano, imperniato sul concetto di tutela giurisdizionale individuale, di cui all’art. 24 della Costituzione.
Le class action costituiscono una realtà ormai consolidata in molti Paesi stranieri, primi fra tutti gli Stati Uniti. Sono azioni collettive, e non individuali, con cui più risparmiatori e/o consumatori fanno richiesta al giudice di risarcire i danni subiti per via di comportamenti illeciti di società e imprese. In pratica, risparmiatori e/o consumatori, anziché agire in giudizio da soli per soddisfare le loro pretese risarcitorie, agiscono congiuntamente, avendo subito danni da una medesima condotta illecita della società convenuta in giudizio. Per chi avesse visto il film Erin Brockovich, film tratto da una storia vera e con una splendida Julia Roberts protagonista, è proprio quello l’impianto e il funzionamento di una class action.
Se si prende il film della Roberts come termine di paragone, ci si rende immediatamente conto della bontà delle class action, intese come azioni giudiziarie che servono a dar voce a chi ha scarso potere contrattuale nei confronti delle grandi multinazionali. Nel film, infatti, vengono risarcite le persone che per condotte illecite di una importante e potente società si erano ammalate di cancro e leucemia.
Tuttavia, le class action, così come proposte dalla finanziaria, destano più critiche che consensi, e non solo nell’opposizione. Confindustria parla di “atto di grave ostilità contro le imprese” e nella stessa maggioranza, il Ministro Bersani anticipa già necessarie modifiche alla norma.
Basterebbe solo questo per capire il gran pasticcio normativo che ne è venuto fuori, posto che non ha alcun senso adottare una norma per poi invocarne un secondo dopo la riforma. Questo modo di procedere non è solo contrario a ogni logica di buon senso, ma crea agli operatori del diritto degli imbarazzi e delle difficoltà di non poco conto. La norma entrerà in vigore il 1 luglio del 2008, con il suo tenore attuale. Poi sarà modificata, con la conseguenza che per le azioni intentate prima della modifica varrà la norma come concepita in finanziaria, mentre per le successive si dovrà fare riferimento alle modifiche apportate. Insomma, già i nostri avvocati e i nostri giudici si trovano per la prima volta a che fare con azioni di questo tipo. Poi il Parlamento gli complica ulteriormente la vita, istituendo un doppio regime valevole a periodi alterni. A pagarne il prezzo non sono solo gli operatori del diritto, ma gli stessi consumatori e le persone coinvolte in procedimenti giudiziari, per il conseguente appesantimento del sistema giustizia Italia, già di per sé noto per la sua inefficienza.
Queste considerazioni critiche sul piano metodologico non sono le sole. Se si entra nel merito della norma, ci si rende conto che la class action italiana è ben lontana dall’omologa azione americana e dalla class action portata avanti con passione da Erin Brockovich.
Innanzi tutto, negli Stati Uniti le azioni collettive possono essere esperite direttamente dagli interessati, purché il numero degli attori sia talmente elevato da rendere impossibile lo svolgimento di processi individuali paralleli. In Italia, invece, la decisione esclusiva sul se e come agire spetterà alle associazioni di categorie. Legittimate direttamente dall’adottanda norma sono le 16 associazioni facenti parte del Cncu (Consiglio nazionale consumatori e utenti). Le altre associazioni di categoria abilitate, anche per gli investitori che non sono definiti nel testo della norma, dovranno essere individuate di concerto dai Ministri della Giustizia e dello Sviluppo, previa consultazione delle commissioni parlamentari competenti. Viene comunque fatto salvo il diritto all’azione individuale.
In altre parole, il singolo consumatore può agire in giudizio da solo nelle forme di giustizia tradizionale in vigore e con le stesse possibilità di successo che ha oggi. Se però decide di fare una class action non lo può fare, nemmeno se, come la Brockovich, trova migliaia di persone disposte ad agire insieme a lui. La decisione sulla class action spetta soltanto alle associazioni di categoria, a dispetto del diritto costituzionale dell’individuo ad agire in giudizio a tutela dei propri interessi!
Nel sistema americano, poi, la class action, prima di essere istruita, può essere bloccata dal giudice il quale, con una valutazione sommaria e senza entrare nel merito della controversia, la dichiara inammissibile ove la consideri infondata e pretestuosa. Si tratta di un filtro importante che serve a non appesantire il sistema giudiziario e a evitare processi palesemente senza fondamento. La norma italiana, invece, non prevede tale filtro. Nel momento in cui un’associazione di categoria agisce, il processo si deve svolgere nelle forme previste, e in tutti e tre i gradi di giudizio, se si procede alle normali impugnative. Lo scenario è ancora più inquietante se lo si lega ai soggetti che sono titolari delle class action, che non sono i consumatori o i piccoli risparmiatori, ma le associazioni di cui si è detto. Sono loro che decidono quando e come agire, e potrebbero decidere di farlo non per la tutela di interessi concreti, ma solo per ragioni di peso o opportunità politica.
Ancora, nelle class action statunitensi è prevista la discovery, uno strumento processuale che consente all’attore di accedere ai documenti e agli archivi delle società convenute in giudizio e di interrogarne i rappresentanti legali sotto giuramento. Nessuna traccia di tutto questo nella proposta italiana, nonostante sia noto che il successo delle azioni collettive dipende in gran parte proprio dal tipo di istruzione probatoria concessa nell’ordinamento statunitense.
C’è poi un altro elemento da considerare. Negli Stati Uniti l’onorario degli avvocati è calcolato in percentuale sul risarcimento ottenuto, percentuale fissata dal libero e comune accordo tra avvocati e consumatori. La norma italiana, invece, prevede che l’onorario del difensore non possa superare il valore del 10% della controversia. A seconda della prospettiva da cui la si guarda, tale disposizione potrebbe essere valutata positivamente o negativamente, ma non la si comprende nella prospettiva di una maggioranza che nel votare la prima lenzuolata sulle liberalizzazioni, ha abolito la tariffa minima degli avvocati. Non si comprende cioè per quale ragione la liberalizzazione debba essere solo al ribasso e sempre a discapito della stessa categoria professionale, e per quale ragione l’idea del libero mercato debba valere a senso unico.
L’atteggiamento assunto dal Senato è solo quello di chi vede nei sistemi stranieri un segnale di civiltà, ma anziché meditare sul come modellare l’esperienza straniera al proprio sistema normativo, lo scimmiotta e lo trasforma a suo uso e consumo, senza valutare le conseguenze dell’impatto della norma nel proprio ordinamento. La decisione di ieri è rozza e approssimativa, avventata e affatto meditata. In una parola assolutamente “fuori luogo”.
È assolutamente fuori luogo inserire una norma di tale portata in una legge finanziaria. Le norme di grande importanza, come quella sulle class action, che hanno riflessi incisivi non solo nella vita dei cittadini, ma sul concetto di processo, sull’assetto costituzionale, e sui suoi principi fondamentali, come l’art. 24, devono essere il frutto di valutazioni attente e approfondite. E invece, la norma è stata votata da un Senato equiparato a una bottega chiusa per fallimento (Andreotti), tra chi evocava l’immagine di Nikita Kruscev all’Assemblea Generale ONU (Sacconi) e chi non riusciva a entrare in Aula per la confusione imperante (Dini).
È assolutamente fuori luogo che in un sistema come il nostro, incentrato sul diritto individuale ad avere un processo (art. 24 Costituzione), il diritto alla class action sia sottratto ai singoli per essere affidato alle associazioni di categoria. Né ha senso riconoscere al singolo il diritto di agire per conto proprio e nelle forme tradizionali. Non solo tale riconoscimento è superfluo perché deriva da una norma di natura costituzionale, ma è del tutto inefficace rispetto all’esigenza di tutelare il consumatore e l’investitore nel gioco di forza che li vede contrapposti alle grandi società multinazionali.
È assolutamente fuori luogo che si faccia un discrimen tra associazioni di categoria abilitate alle class action e associazioni non abilitate, soprattutto se a decidere su tale abilitazione sono organi politici come i Ministri. In questo modo non solo si aumenta il peso delle lobby, ma gli enti abilitati ad agire sono suscettibili di cambiamento a seconda del colore politico del Governo, creandosi così un terreno favorevole a fenomeni di corruzione. Peggio ancora se la norma venisse interpretata nel senso di consentire una decisione una tantum sulle abilitazioni: ancora una volta si assisterebbe al consolidamento di un potere “sociale” di sinistra. In entrambi i casi, comunque, le conseguenze per consumatori e investitori sarebbero deleterie.
Più che una nuova forma di tutela per consumatori e investitori, quella votata al Senato è una forma di tutela delle associazioni di categoria, o meglio di alcune di esse, le quali vedono aumentare enormemente il loro potere contrattuale a danno dei veri interessati. Più che una norma che assegna un diritto alle parti contrattuali deboli, quella approvata è una norma che glielo sottrae in via definitiva, assegnandolo ad associazioni di cui magari non fanno parte e dalle quali non si sentono assolutamente rappresentati. Più che una norma pro populo, quella al Senato, è una norma ad personas. E intanto, nella prospettiva di nuove e ulteriori modifiche, il sistema giustizia Italia si prepara ad affrontare, senza paracadute e rete di salvataggio, una sfida già persa in partenza.