Solženicyn e il presagio del mondo in frantumi
09 Settembre 2007
Paul Berman ha preso sul serio Tariq Ramadan e di conseguenza lo ha incalzato con domande ficcanti, non si è sdraiato ai suoi piedi, riconoscendogli la fama di intellettuale “intoccabile”, di neo-progressista islamico. Sciocchezze da vacanze romane, che solo nel permanente status di “vacatio italiota” possono diventare verità indiscusse. Ramadan è un soggetto tanto più pericoloso quanto più lo si consideri disponibile al dialogo (sempre ammesso che in Europa si sappia davvero cosa significhi “dialogare”: Berman lo sa).
Strano: nel mondo post-heideggeriano abitato dal nichilismo compiuto – anche in area comunista, penso a Vattimo – si dubita ferocemente di tutto, dall’identità occidentale al biotech, ma su una cosa non si dubita mai, assolutamente mai, sul fatto che, con l’Islam, in qualsivoglia sua forma, non si possa che “dialogare”. Tradotto nel gergo “pulp-islamico”: dhimmitudine. L’europeo, l’occidentale, anche certi intellettuali radical-chic e ignoranti americani, sia chiaro, e un bel pezzo di mondo hollywoodiano, considerano l’Occidente spazzatura, un mondo da “purificare”, come le sette catare e gnostiche volevano fare con la civiltà cristiana: il nuovo zelotismo dei ricchi. Un fenomeno che si associa ad altri fenomeni creando una spirale, anzi un cuneo ideologico pervasivo, un modus cogitandi et operandi diffuso come ogni belief, ogni credenza può esserlo. Questo è il volto odierno del nichilismo. Esso è gaio e compiutamente identico a se stesso, immobile e assai poco stravagante, assai educato e “polite”, parla l’esperanto del politically correct e invade i mondi vitali tradizionali, Chiesa inclusa.
Uno che ha compreso questo fenomeno ed ha cercato di opporre ad esso uno zelotismo contrario e di eguale forza è stato Bush, un evangelico radicale che ha interpretato la lotta al terrorismo come la rinascita dell’Occidente. Oggi, anche dalle parti di Washington, anche da parte di certi gruppi neoconservatori, si critica aspramente Bush e la sua strategia politico-militare in Iraq, trascurando la dimensione per così dire spirituale della scelta bushiana.
Sia come sia, rimane sul piatto una questione: dove sta andando l’Occidente? Verso la dhimmitudine, la sottomissione all’Islam in quanto tale, senza alcuna distinzione, e ciò accade proprio mentre nei convegni degli intellettuali liberal si fatica alacremente per mettere insieme quel profilo finora assai poco netto di un Islam “moderato”, con il quale si potrebbe e dovrebbe dialogare, al fine di scompaginare gli assetti e le strategie di Al-Qaeda. Dov’è l’errore culturale, che radica nell’azione l’errore politico? La cecità di fronte all’evidenza. Un errore culturale ed etico che ha minato le fondamenta dell’Occidente dai tempi del comunismo.
Vale la pena riprendere la vecchia e negletta tesi di Solženicyn, siamo nel 1980: “Gli errori fatali dell’Occidente nei riguardi del comunismo ebbero inizio nel 1918: fin da allora i governi occidentali non ne hanno visto il pericolo mortale per se stessi”. Ecco il nodo strategico e culturale: la cecità di fronte all’evidenza. Che diventa limite etico e morale: la cecità volutamente esibita di fronte al pericolo mortale ieri del comunismo, oggi dell’Islam totalitario. La dhimmitudine dunque può dirsi in molti modi e può presentare molte facce, ha anche una sua storia; quella di oggi si caratterizza come cecità intenzionale, dunque come esplicito dolo intellettuale e morale. Da parte della classe dirigente, intellettuali e politici, con a capo la sinistra del “pulp Islam”, ma anche la destra liberale deve rendersi conto che l’occupazione dei territori da parte del “pulp Islam” italiano pone le premesse della disgregazione dello Stato e della crisi strutturale della democrazia. Il fatto che il tema della sicurezza non sia concepito come immanente alla strategia dello Stato in materia di integrazione la dice lunga a riguardo.
La malattia dell’Occidente ha radici remote e anche durante governi forti e legati alla tradizione come quelli di Reagan e della Thatcher la disgregazione interna alla civiltà occidentale era già una strategia di logoramento da parte del nemico, che, dalla fine degli anni settanta del secolo scorso, aveva il profilo oggi diventato di lampante attualità: comunismo eversivo e islamismo fondamentalista. Due tempi politici diversi, un’unica strategia, che dal carcere la brigatista Lioce ha messo nero su bianco: l’Occidente è il nemico, l’Islam fondamentalista è diverso da noi, ma omogeneo nell’obiettivo. Che risulta chiaro a tutti: mettere a ferro e fuoco l’Occidente, realizzando il sogno gnostico dei rivoluzionari. Rivoluzionari nichilisti.
Concludo. Solženicyn osservava nel suo “Discorso di Harvard”, che metteva a tema il “mondo in frantumi” (non è forse attuale?): “Il declino del coraggio è nell’Occidente d’oggi forse ciò che colpisce uno sguardo straniero. Il coraggio civile ha disertato non solo il mondo occidentale nel suo insieme, ma anche ognuno dei paesi che lo compongono, ognuno dei suoi governi, ognuno dei suoi partiti, nonché, beninteso, l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Questo declino del coraggio è particolarmente avvertibile nello strato dirigente e nello strato intellettuale dominante, e da qui deriva l’impressione che il coraggio abbia disertato la società nel suo insieme. Naturalmente ci sono ancora numerose persone individualmente coraggiose, ma non sono loro a dirigere la vita della società. I funzionari politici e intellettuali manifestano questo declino, questa fiacchezza, questa irresolutezza nei loro atti, nei discorsi e soprattutto nelle considerazioni teoriche che si premurano di esibire per dimostrarvi che questo modo d’agire, che basa la politica di uno Stato sulla vigliaccheria e il servilismo, è pragmatico, razionale e giusitificato da qualsiasi elevato punto di vista intellettuale e perfino morale lo si consideri. Questo declino del coraggio, che sembra talvolta arrivare fino alla perdita di ogni traccia di virilità, non è privo di risvolti sottilmente umoristici nei casi in cui i medesimi funzionari sono presi da subitanei accessi di braveria e intransigenza nei confronti di governi senza forza, di paesi deboli che nessuno sostiene o di correnti condannate da tutti, che manifestamente non sono in grado di reagire in alcun modo. Ma la loro lingua si secca e le loro braccia si paralizzano di fronte ai governi potenti e alle forze minacciose, di fronte agli aggressori e all’Internazionale del terrore”.
De te fabula narratur. Concetto molto chiaro: l’Internazionale del terrore. Harvard, 8 giugno 1978. E poi arrivò l’11 settembre 2001, che un gruppo di cialtroni facenti parte proprio di quel funzionariato intellettuale di cui ragionava in tempi non sospetti il dissidente russo hanno attribuito alla mano terroristica degli Stati Uniti stessi, cioè la vittima dell’assalto terroristico. E d’altra parte anche nella Chiesa ci sono funzionari intellettuali, tutti quei dòtti esegeti di non si sa cosa che ogni giorno ci propinano un’immagine diversa di Gesù; io ne incontrai uno un po’ di tempo fa, che sostenne, sic et simpliciter, che il terrorismo islamico era una creazione dell’America, con la sua politica neocolonialistica. Naturalmente lui sapeva tutto perché aveva “visto” con i suoi occhi la politica di Israele appoggiata dagli States. Non una parola sulle vittime occidentali dell’11 settembre, non una sillaba sui possibili esiti della parabola terroristica in Europa, gli stessi vigliacchi che giustificano tutto pur di rimanere vivi con l’illusione ideologica di “essere più cristiani” di appartenere alla cerchia degli “eletti”, non i rozzi assassini e boia dei popoli oppressi, ma gli “eletti”, i “sapienti” della invincibile Gnosi moderna e postmoderna. Bellow scrisse: ne muoiono più di creapacuore. Sbagliato: la menzogna dei codardi ammazza di più e più sottilmente. Sia chiaro: codardi occidentali. Il problema non è l’Islam, nemmeno nella sua ultima versione “pulp”, siamo noi. L’Occidente dei volontariamente asserviti al Nemico