Sono gli Stati nazionali a dover tutelare il lavoro globale

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Sono gli Stati nazionali a dover tutelare il lavoro globale

26 Maggio 2011

La Modernità (con la fiducia nella tecnologia) e la Globalizzazione (con l‘esigenza di mobilità) hanno scatenato e alimentano un crescente bisogno di comunità e di stanzialità che il sistema industriale tende a compensare con un maggior costo aziendale del prodotto derivato dal “valore aggiunto” fornito dal lavoratore, applicando cioè i principi che negli anni 1970 e ‘80 del XX secolo videro il “toyotismo” affermarsi sul modello tradizionale del “fordismo-taylorismo” [1].

La versatilità è la prerogativa dell’Uomo in grado di mantenere concrete le possibilità di successo e di contribuire alla Società in assenza di istruzione. Ma per eccellere no, perché anche una grande abilità va arricchita se si vuole diventare "il primo dei ciabattini di Francia": pare che così rispondesse Napoleone Bonaparte a chi chiedeva se svolgere un lavoro umile pregiudicasse l’ambizione e negasse prestigio e possibilità di crescita. Esagerava? Solo perchè all’epoca "umiltà" era sinonimo di povertà e, con riferimento al lavoro, di remuneratività inconsistente. Oggi però la musica è cambiata: fare l’idraulico, l’elettricista, il manovale edile sarà pure "umile" ma molto remunerativo mentre "umili" sono diventati molti lavori presso le amministrazioni pubbliche, perché svolti senza ambizione e con scarsa cultura.

Gli spazzini hanno preteso di essere chiamati "operatori ecologici" ma guadagnano la metà di un elettricista che non fa turni e decide quando, dove e per chi lavorare. Gli addetti agli uffici aperti al pubblico si fregiano del titolo di impiegati (white collars) ma guadagnano la metà di un manovale edìle che decide quando, dove e per chi lavorare. Una volta, umili erano i mestieri di cui oggi possedere l’arte assicura rispettabilità e benessere ma, darsi un mestiere, è più faticoso che impiegarsi: bisogna possedere particolari abilità, studiare per svilupparle e darsi da fare tutti i giorni per fare esperienza. La concorrenza è feroce e la si batte con capacità tecniche, aggiornamento continuo, networking, gestione dei tempi dei costi e dei ricavi. L’impiego invece non pretende particolari abilità, solo un titolo di studio e, una volta ottenuto, si dormono sonni tranquilli: non c’è concorrenza, lo stipendio è sicuro e nessuno è in grado di valutare la tua efficienza. Ma oggi tutto sta cambiando.

Innovazione, Deregulation e Flessibilità sono stati utilizzati per mantenere in vita un sistema di lavoro superato dalla realtà, anticipando i caratteri del nuovo modello di lavoro che si intravede quando, adombrando l’ingresso della Società nel quaternario, si percepisce il diffondersi della richiesta di servizi in modalità informatica (la ricetta medica e la prenotazione aerea via handphone; l’ordinazione e fatturazione di un ordine commerciale via internet; l’home banking e il pagamento delle tasse on line). L’informatica ha creato le premesse per una piattaforma globale e una forza lavoro ubiqua che si serve di strumenti (pc e reti di pc) in grado di interagire grazie all’elaborazione di modalità di dialogo universali (i famosi protocolli tipo http) così che, quello che passa per una modalità di lavoro (il “work-flow”), è in realtà un nuovo sistema di lavoro del quale occorre tipizzare contrattualmente la fisionomia.

Ma la tipizzazione del rapporto imprese/dipendenti non può prescindere dalla realtà consolidata. Ne deriva l’esigenza di forme contrattuali standardizzate a livello internazionale con poche e rigide condizioni generali ma ampia discrezionalità del corrispettivo in sede di contrattazione nazionale e individuale; diversamente, dobbiamo rassegnarci a un sistema economico non competitivo o all’alternativa che oggi implica delocalizzazione di molte attività nei paesi a minor costo salariale e pendolarismo migratorio dai paesi poveri ai paesi ricchi a scopo formativo; domani implicherà lo sviluppo di industrie nazionali concorrenti nei paesi poveri grazie alla formazione conseguita dai pendolari migranti. La strada da battere è un cambio di paradigma che però non potrà mai prescindere da due secoli di rivendicazioni e conquiste sociali dei lavoratori, perché sarebbe a rischio la stessa tenuta della Società. Il Lavoro dovrà infatti essere difeso come diritto inalienabile dell’individuo, strumento principe per valorizzare la personalità umana e curare la marginalizzazione sociale.

Il Mercato Universale del Lavoro (MUL) è un effetto problematico dell’abolizione dei confini geografici alla competizione economica, mentre la liberalizzazione e l’integrazione dei mercati finanziari ha importato la deterritorializzazione e transnaziolizzazione prima del capitale e dell’impresa (con affrancamento dalla fidelità verso un singolo Stato) e poi del lavoro (in questo caso con un fattore di potenziale recupero di forza contrattuale del Lavoro rispetto al Capitale).

Le inquietudini sociali del primo ‘900 e quelle più accese del secondo ‘900 hanno convinto i governi che per riportare sotto controllo i conflitti sociali dovuti alla disoccupazione (qualunque ne sia la causa: dell’industrializzazione, delle guerre e delle bolle finanziarie) il riformismo cerchiobottista britannico del secondo ‘800 non è praticabile, perché troppo venato di repressione. Né lo è l’espansione territoriale, per l’infiammabilità del nazionalismo che deve evocare e, comunque, per inesistenza di nuovi territori sulle cui deboli economie sulle quali scaricare i costi delle esigenze da soddisfare. A ciò si aggiunga che, se la fine del XX secolo ha visto il Sud America e il Far East perdere vocazione allo sfruttamento passivo il XXI, si assiste alla loro presa di coscienza di possedere capacità da Competitor. In appena due decenni si è consumata l’aspettativa degli imprenditori occidentali che coltivavano di realizzare in quei paesi il sogno di generazioni di imprenditori: mano d’opera a basso prezzo, anzi a costo "–" rispetto a qualunque altro mercato nazionale. La localizzazione delle industrie verso i paesi con costo del lavoro a costo "-" (col suo dumping salariato sfrenato) ha, difatti, innescato un breve ciclo di insperati guadagni per l’industria occidentale ma anche lo sviluppo accelerato di paesi arretrati i cui progressi industriali si sono rivelati la causa principale dell’insicurezza delle classi lavoratrici e artigiane di tutto il mondo, salvo in un avviare l’omogeneizzazione delle rivendicazioni sociali e lavorative su scala planetaria.

E’ una tendenza che appare incontenibile perché, con buona pace di Stiglitz, sembra proprio "la mano invisibile del mercato" a nascondersi dietro l’impennata dei salari dei lavoratori specializzati indiani registrata nel primo semestre del 2007 e il conseguente reverse offshoring (riconsiderazione di alcune localizzazioni industriali) di molte multinazionali occidentali. Nel senso che, grazie alla globalizzazione e all’ effetto "vasi comunicanti", il Lavoro si avvia a divenire una componente del processo produttivo per il quale il Mercato pretende regole universali perché mobile, apolide e funzionalmente surrogabile proprio come il Capitale. Ma si diffonde un cruccio: che la denazionalizzazione del Lavoro implichi la perdità di identità individuale e senso di appartenenza ad una collettività, qualunque essa sia, nella prospettiva di una appartenenza universale remota a fronte di una molteplicità di appartenenze individuali idonea a fare dei lavoratori dei gipsy-worker senza patria né ideali se non il salario (come nel calcio) il cui esitp potrebbe essere la disgregazione della Società in una moltitudine di indifferenti pronti al tutti contro tutti.

Se abbia ragione chi attribuisce al MUL (mercato universale del lavoro) la perdita del potere contrattuale della "forza lavoro" (quale specularità dell’indebolimento degli Stati nazionali rispetto alle multinazionali), ovvero chi sostiene che l’omogeneizzazione delle rivendicazioni sociali a livello planetario potenzia la "forza lavoro", perché il MUL sta funzionando da trampolino per l’esportazione della democrazia e dei diritti politici e sociali nei paesi sottosviluppati (mentre il rapporto fra Stati nazionali e Capitale finanziario non è stato inciso dalla mobilità transnazionale – dovuta alla globalizzzazione – più di quanto sia stato inciso, a metà del XX secolo, dalla mobilità transregionale – seguita alla industrializzazione), finisce per non essere rilevante. Poiché il problema centrale non è – come viceversa sembra essere per molti – la reversibilità o meno del nuovo modello di capitalismo di mercato ma la capacità dello Stato di mantenere autorità regolativa per equilibrare le relazioni industriali nell’ambito di una competizione economica che travalichi la sua giurisdizione territoriale.

Sotto questo profilo il ricorso agli Organismi Internazionali ha dimostrato di avere lo stesso effetto degli psicofarmaci: controllano i sintomi della malattia ma non la debellano. L’unica strada è invece il recupero di sovranità da parte degli Stati nazionali e l’elevazione a rango di normazione primaria della tutela di alcuni diritti individuali di originaria fonte contrattuale: i diritti "al lavoro", "al salario giusto", "alla sicurezza sociale e sanitaria". Da rifiutare è invece qualunque ipotesi di smantellamento delle "gabbia dorata" nella quale la Società globale dichiara di sentirsi imprigionata, perché si tratta di una struttura protettiva le cui losanghe vanno rinforzate.

 


[1] Per “toyotismo” si intende l’organizzazione del sistema industriale nel Giappone del dopoguerra, dove gli interessi dei lavoratori e quelli della proprietà vengono mediati dal management, di fatto neutralizzando i contrasti e creando un’identificazione tra il bene dell’azienda e bene del singolo, riassunta nel motto “rispetto per la componente umana” cfr Y. Monden, Produzione Just-In-Time. Come si progetta e si realizza, Petrini Editore, Torino 1986