Sono i cittadini e le istituzioni a pagare il prezzo più alto di un governo allo sbando

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Sono i cittadini e le istituzioni a pagare il prezzo più alto di un governo allo sbando

Sono i cittadini e le istituzioni a pagare il prezzo più alto di un governo allo sbando

26 Ottobre 2007

Sbaglia e di grosso chi pensa che in questi giorni si
stia assistendo semplicemente all’agonia di un governo da tempo allo sbando e
che, ciò nonostante, vuole e riesce a resistere ad onta del fatto di non aver
più né una maggioranza politica, né una maggioranza numerica. Qui, ormai, si
sta assistendo, in realtà, all’agonia delle istituzioni repubblicane. E a nulla
vale mascherarla insistendo adesso su una riforma elettorale che, paradossalmente
vorrebbe eliminare una legge che comunque assicura una maggioranza. Anche se le
urne possono dare ad una delle coalizioni dei margini numerici ridottissimi. La
possibilità di trovare un’intesa su una nuova legge elettorale si è consumata
immediatamente dopo l’elezione di Napolitano a Capo dello Stato. Tornarci
insistentemente sopra significa soltanto cercare di prender tempo in previsione
di non si sa di che cosa.

La situazione
di frammentazione politica – riflesso in buona misura di quella sociale – è infatti
tale che né un esito positivo del referendum, né l’adozione del modello
cosiddetto tedesco, assicurerebbero una governabilità maggiore e migliore di
quella assicurata dalla tanto vituperata legge elettorale vigente. Tanto vale,
allora, votare subito; con la presente legge.

Chi ha prima
osteggiato, poi vituperato ed infine respinto la riforma elettorale varata dal
centro destra paga ora le conseguenze di tanta insipienza. La riforma, come
tutte le cose umane, sarebbe potuta essere migliore, ma il fatto che da più
parti – ed anche da parte del neosegretario del Pd – se ne voglia
surrettiziamente riprendere lo spirito, sta a significare che non meritava il
trattamento che ha avuto.

Ma questo
mette purtroppo in luce il fatto che la CdL è da sempre, e verrebbe da dire
costituzionalmente, è incapace di difendere culturalmente, dinanzi a
quell’esigua opinione pubblica che conta, le proprie riforme. Vittima da sempre
di una guerriglia culturale, non ha ancora approntato armi adeguate per
difendersi e per combatterla. E soltanto recentemente è riuscita a togliersi di
dosso l’eticchetta di congrega di parvenues e di magliari televisivi entro la
quale la si voleva rinchiudere. In dieci anni di movimentismo, tempo
spaventosamente lungo per una democrazia moderna, dai circoli di società civile
non è ancora emerso un leader che possa far pensare che Berlusconi possa avere
un degno successore o, per lo meno, un politico che sembri in grado di
conservare la coalizione che ha creato. Veltroni lo sa e glissa sul referendum
che, se passasse, attribuirebbe comunque al Pd un potere di coalizione che non
è detto FI possa conservare a lungo.

Cinicamente si
potrebbe dire che oltre che ai senatori, la politica commerciale del governo
dovrebbe estendersi anche alle altre categorie che fanno, o contribuiscono a
fare, opinione pubblica. Ma, dato che in politica il costo morale
dell’esercizio del cinismo è maggiore del suo costo monetario (e l’esito è
comunque incerto), occorre “investire” presto e tanto in cultura. Diversamente,
come è abbondantemente dimostrato, si può mobilitare la società civile tramite
circoli, si possono vincere le elezoni, ma non si governa perché non si crea
una classe dirigente diffusa, coesa e preparata. Di qui
l’importanza di un partito moderno.

Quando questo
non avviene i risultati sono evidenti. Ed uno, in particolare, è, proprio in
questi giorni, sotto gli occhi di tutti. Come è mai possibile che un governo
come quello di Berlusconi, che aveva una maggioranza sicura sia alla Camera
sia al Senato, non abbia avuto la forza politica nè di fissare le elezioni
quando voleva (entro maggio, e quindi dopo aver eletto il nuovo capo dello
stato), né di impedire che ad essere nominati senatori a vita fossero
personalità notoriamente avverse al centro-destra. Per non dire delle nomine
dei giudici costituzionali e dei componenti delle authorities. Vale a dire di
tutte quelle istituzioni che gli hanno impedito di governare e che si ritroverà
ancora contro qualora dovesse tornare al governo. 

Tale
constatazione, indubbiamente amara e preoccupante, ha un corollario. Potranno,
nel futuro, FI e la coalizione, evitare simili madornali errori senza aver
conquistato credibilità e prestigio nell’élite nazionale? Individuato il
nemico, e quando si è consapevoli della sua pur legittima risolutezza, non
resta che sconfiggerlo. O comprarlo. Il resto è perdere tempo.

Se quella
prodiana è un’agonia dolorosa, e a tratti anche spassosa se la si osserva con
distaccato cinismo, a pagarne il costo sono le istituzioni ed i cittadini.

La crisi delle
prime è diventata tragicamente palese nel fatto che, pur consapevole della
gravità della situazione, il Capo dello Stato deve muoversi o con accorati appelli
alla concordia o dietro le quinte. L’essere stato eletto senza l’apporto
dell’opposizione diminuisce, è inutile ed ipocrita nasconderlo, la sua
autorevolezza sia nei confronti dell’opposizione, sia, ed è altrettanto grave,
nei confronti della maggioranza politica che lo ha eletto.

Il disagio
della maggior parte dei secondi è dato dal fatto che le politiche economiche
del governo, bocciate da tutti coloro che avevano titolo per esprimersi, e
promosse soltanto (e per ora) dalla maggioranza, lasceranno – e davvero non se
ne avvertiva il bisogno – spese ingenti e difficilmente quantificabili per i
prossimi decenni. Ma soprattutto è data dalla consapevolezza che a questo
rigurgito di comunismo (che non consiste in espropriazioni e in
nazionalizzazioni, ma nell’elaborare strumenti legislativi e finanziari di
controllo di ciò che formalmente resta proprietà privata) non pare possibile
opporre resitenza alcuna. Il governo ha avuto un politica economica, sociale,
industriale e finanziaria di cui si inizia ad intuire chi pagherà un giorno il
costo; ma alla quale non è stato possibile opporsi. Gli stessi imprenditori,
per calcolo o ignavia, subordinano tutto alla concessione di miopi favoritismi
fiscali.

In sintesi, il
nostro sistema politico consente ad una maggioranza risicata e divisa di
governare, ma non ha adeguati strumenti di controllo del governo. Quando chi
vince si prende tutto si può tanto pensare che le istituzioni non abbiano
adeguati strumenti di bilanciamento del potere, sia che chi resta
all’opposizione a subire non sia in grado di uscire da uno stato di inferiorità
e di sudditanza anche per propria insipienza.

Certamente
costituzione ed istituzioni vanno cambiate; e presto. Ma seguendo la logica
della funzionalità ed adeguatezza rispetto ai tempi e alle esigenza di una
competizione globale. I nostri padri costituenti, dovrebbe essere ormai chiaro,
furono ben diversi da quegli americani. E non è il caso di rimpiangere né loro,
né quanto ci hanno lasciato. Ciò che hanno fatto mostra falle non più
tamponabili.

Ma per
progettare e realizzare altre istituzioni ci vuol cultura politica. Le
manifestazioni di piazza, per quanto grandiose, non producono élites. Possono
dare una spallata ad un governo ormai in trance. Non producono cultura
politica, e difficilmente attirano quanti sono in grado di produrla.

A Prodi ed
alle forze che lo sorreggono può essere imputato di tutto e di più. Ma non si
può pretendere che quel gruppo di potere legittimi un’élite che intende
scalzarla dal potere. Quella legittimità, fondamentale per il buon
funzionamento di una democrazia liberale moderna, si conquista sul campo in cui
si svolge la lotta. Non esistono alternative, e quelle tentate son fallite. In
politica niente è dato per diritto e di ciò che si ottiene per grazia è saggio
diffidare. Persistere negli errori, dopo un decennio è soltanto demenziale.
L’obiettivo del centro destra, e di FI in particolare, deve essere quello di
mettere in campo forze, energie ed organizzazioni culturali adeguate
all’esigenza di cambiamento che si esprime nella grandiosità delle
manifestazioni che senza sforzo riesce ad organizzare. Il resto: il
buongoverno, verrà quasi da sé, quando si ha un leader.