Sotto a chi tocca, se ne andranno o faranno la fine di Gheddafi?
24 Ottobre 2011
Negli ultimi giorni la stampa italiana ha manifestato fin troppa indulgenza mascherata da compassione per la sanguinosa fine a cui si è condannato volontariamente il dittatore libico Gheddafi: non è chiaro cos’altro avrebbe potuto sperare alla fine dei suoi giorni il Rais dopo aver soffocato con tutti i mezzi la rivolta (mercenari, stupri, assedi medievali), e dopo quarant’anni di repressione della libertà e dei diritti umani nel suo Paese, fosse comuni comprese.
Sembra che un altro ex anfitrione dell’autocratismo arabo, il presidente egiziano Mubarak, appresa la notizia, si sia sentito male alla vista delle immagini del corpo martoriato di Gheddafi; ce lo ha spiegato un servizio del Tg1 di venerdì scorso grondante sdegno per la barbara viltà con cui è stato tolto di mezzo “Cane pazzo”. E perché Mubarak sarebbe così preoccupato? Perché a rovesciarlo, complice l’esercito, è stata una piazza disarmata ma arrabbiata, così come un improbabile truppa di giovani male armati e vecchi ribelli delle montagne è riuscita ad avere la meglio su quello che sembrava essere il più potente e pericoloso tra i leader africani.
Il messaggio che esce dalla guerra in Libia è chiaro: puoi anche avere ai tuoi ordini la spietata brigata Mutassim, mandare i carri armati nelle città ribelli come ha ordinato Assad in Siria, usare le milizie Basij per controllare le strade di Teheran, ma quando si alza il vento della rivoluzione finirai travolto e pagherai fino all’ultimo centesimo la libertà rubata al tuo popolo. Il mondo arabo si è sollevato in forme che non ci piacciono e ci preoccupano semplicemente perché sappiamo di avere una responsabilità nel regime change di questi Paesi e sarà per colpa o per merito nostro se alla fine ad imporsi saranno i fondamentalisti islamici, le forze politiche nazionaliste e socialisteggianti, o gli altri gruppi minoritari come i liberali pro-occidentali, i giovani e le donne, cioè i soggetti che sono nostri alleati e che abbiamo progressivamente lasciato soli di fronte alle opportunità che si aprivano dopo anni di stasi.
All’inizio della guerra di liberazione del mondo arabo, quando cadde l’Emirato talebano dell’Afghanistan, nell’opinione pubblica occidentale c’era insieme rabbia per l’11 settembre ma anche la certezza che a combattere a fianco di chi si ribellava al terrorismo e ad una visione oscurantista dell’islam ci fossero soldati americani (tanti) ed europei (pochi). Quando Saddam Hussein venne tirato fuori dalla buca in cu si nascondeva e successivamente impiccato dopo un processo spicciolo, l’adesione spontanea alla missione di Bush venne meno, e la discutibile conduzione del conflitto in Iraq avrebbe cancellato del tutto l’idea che stavamo facendo la cosa giusta, ridando fiato all’antiamericanismo e all’antisemitismo.
L’Iraq ha rappresentato il peggior conflitto di questo decennio, certo, eppure il baathismo è stato sconfitto. L’amministrazione Bush, pur con tutti i suoi errori, ha dimostrato che i regimi arabi non erano eterni come si tendeva a credere; bisognava agire con la forza per rovesciarli, non per occupare un altro Paese e sfruttarne le risorse ma per permettere a popoli oppressi di avere un’opportunità democratica. Lo stop alle operazioni oltreoceano imposto da Obama non ha bloccato la rivoluzione in atto e nonostante il profilo soft scelto dal presidente democratico la guerra mondiale islamica così come quella permanente al terrorismo continuano.
Stiamo attraversando una fase caotica che non per forza va guardata pessimisticamente. I nuovi partiti religiosi tunisini sono a rischio infiltrazioni salafite, vero, ma in questo weekend si è votato dove le elezioni ormai erano solo un vago ricordo, essendo state ridotte a farsa dal pagliaccio Ben Alì.
Anche in Libia, prima di fasciarsi la testa, lasciamo che le diverse componenti, tribali, religiose, dissidenti, moderate se ce ne sono, competano e si facciano concorrenza, magari senza sfilare via la NATO il giorno dopo la vittoria: alla Libia serve ancora l’Alleanza, mai come adesso, nella gestione della crisi e del dopoguerra.
Teniamo alti i paletti con la giunta militare egiziana se vuol conservare lo storico ruolo che ha sempre giocato in Egitto e giacché ci siamo interveniamo anche sull’Arabia Saudita, sul principe Naif assurto al rango di vicedelfino, facendogli presente, diciamo così, che la vandea imposta nella parte orientale del Regno e in Bahrain non è esattamente la risposta lungimirante che si attendono le cancellerie amiche in Occidente.
Le immagini della esecuzione di Gheddafi, nella loro infinita crudezza, restano un monito impressionante per dittatori e autocrati del mondo arabo e musulmano convinti di riuscire a farla franca. L’America si ritira definitivamente dall’Iraq e Obama sembra voler chiudere l’agenda islamica aperta dal suo predecessore. E’ un altro errore strategico di un presidente che tatticamente ha ottenuto delle considerevoli vittorie, come l’eliminazione di Osama Bin Laden. Adesso Teheran potrà inquinare la giovane democrazia irachena più di quanto non abbia già fatto, ma in una condizione caotica, contraddittoria e conflittuale come quella in atto, nessuno può dormire sonni tranquilli, dal Marocco al Pakistan.
La fine di Gheddafi è un incubo per il siriano Assad. E se Damasco si prepara al peggio presto anche il re delle canaglie, il boia Ahmadinejad, capirà che il suo turno è arrivato, sempre che i suoi compagni di merende non lo scarichino prima. Allora, se i popoli di quei Paesi riusciranno a rovesciare i regimi che li controllano, se ci riusciranno da soli, la visione di un Grande Medio Oriente rivoluzionato rispetto a dieci anni fa si sarà realizzata. Ma non avendo voluto schierarci fino in fondo con i rivoluzionari, e avendo invece legittimato fino all’ultimo i loro despoti, non potremo lamentarci dei risultati di quel sommovimento.
Il risultato non sarà quello che ci aspettavamo. Abbiamo archiviato l’esportazione della democrazia come una follia neocoloniale; il nostro problema è diventato unicamente di tenere a bada la crisi del capitalismo finanziario; dunque becchiamoci i salafiti e i Fratelli Musulmani. E’ colpa nostra se abbiamo abbandonato chi si è ribellato e forse ingenuamente ha creduto ad una primavera democratica, fossero anche pochi e politicamente deboli uomini e donne dell’islam. Di questa gente, morta combattendo per la libertà, non si parla nei necrologi un po’ appiccicosi in memoria del Colonnello Gheddafi.