“Sotto le ceneri dell’università”

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“Sotto le ceneri dell’università”

Salvare l’università si può. Serve coraggio delle scelte e soprattutto serve l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Adriano De Maio, già rettore del Politecnico di Milano e della Luiss Guido Carli di Roma, un professore che vanta importanti esperienze di gestione e di riforma dell’università e Lodovico Festa, analista politico, giornalista ne  dibattono insieme in un libro intervista dal titolo “Sotto le ceneri dell’università”, che verrà pubblicato nei prossimi giorni per la Boroli Editori. Pubblichiamo qui di seguito una parte dell’introduzione.

Si è aperta una strana fase nelle università italiane. Da una parte le forze della conservazione sono ancora fortissime. Molti rettori restano asserragliati all’interno delle proprie trincee corporative. Quei poveri studenti sbandati dell’Onda – mentre il sistema che li dovrebbe formare scricchiola terribilmente – si mettono a chiedere il cinema gratis. Questa volta le brioche le rivendicano i sans culotte, non le offre Maria Antonietta. La forza del conservatorismo corporativo, sia nella sua veste istituzionale sia in quella ribellistica, è possente. Arriva fino al Consiglio dei ministri, dove nell’autunno del 2008 ha potuto perfino bloccare alcune parti dei provvedimenti poi assunti per stemperare (in un modo più o meno ragionevole: si veda il capitolo «Università e autogoverno» sul reclutamento del personale universitario) gli effetti più perversi del logorato sistema concorsuale. Chissà come faranno certe baronie a influenzare persino i leghisti!

La ribellione endemica degli studenti, seppur oggi priva di orizzonti ideologico-politici definiti, nella sostanza ripetitiva, è ancora consistente. E non solo in Italia: si guardi a che cosa è avvenuto in Grecia alla fine del 2008. Ma si rifletta anche su quanto la Francia si muova con prudenza in questo campo e spesso arretri dalle iniziative riformiste più radicali annunciate: forse è l’unico terreno su cui Nicolas Sarkozy esita in modo così rilevante. Anche se poi Parigi ha bloccato la riforma delle superiori mentre è partita, invece, una strategia di innovazione centrata sull’autonomia degli atenei.

Eppure, in Italia, le forze per un rinnovamento possibile sembrano questa volta un po’ più solide che in altre occasioni. L’intrepida ministra Mariastella Gelmini osa addirittura alludere alla questione fondamentale dell’abolizione del valore legale del titolo di studio (se ne discute nell’ultimo capitolo). Professori di sinistra come Claudia Mancina, Luca Ricolfi e Marco Santambrogio propongono in modo netto, con il sostegno di quotidiani come il «Corriere della Sera» e la «Stampa», richieste di soluzioni vere: non più i soliti pasticcetti demagogici organici ai giochi accademici. Si tratta di proposte radicali: numero chiuso, un vero autofinanziamento anche elevando le tasse, separazione della governance da una gestione assembleare accademica (Santambrogio propone che il rettore nomini una sorta di delegato-dittatore per scuole di eccellenza da affiancare ad atenei sempre più malridotti); finanziamenti selezionati per qualità e indirizzati direttamente ai dipartimenti, scavalcando le strutture burocratiche del potere baronale; prospettive di un libero reclutamento di docenti e ricercatori. Sono in campo queste e altre analoghe proposte incisive, capaci di modificare un sistema per molti versi allo sbando. La Gelmini nelle sue linee-guida riprende lo spirito di alcune di queste idee. Salvatore Vassallo, costituzionalista di fiducia di Walter Veltroni, offre una qualche sponda (sia pure con molta della solita confusione dei veltroniani) a nome del Partito democratico.

In questo senso, è immaginabile che vi sia una (minima) chance per tentare l’impresa impossibile: riformare davvero l’università italiana. E, se c’è questa chance, va colta di corsa. Da qui un piccolo contributo di idee anche con questo libro a quattro mani.

[…] Un elemento decisivo per una vera strategia di riforma è partire dalla convinzione che l’università non verrà mai veramente rinnovata se la si affronta come questione in sé, se si esaurisce la ricerca delle soluzioni al suo interno. L’università innanzi tutto è organica a quel grande mondo che è la formazione e l’istruzione, e in parte ne subisce i guasti crescenti (e in parte ha contribuito a provocarli).

Risolvere alcuni problemi drammatici dell’università astraendoli da quelli del più generale sistema di formazione e istruzione è impossibile. Il secondo elemento decisivo per un approccio razionale al travaglio dei nostri atenei è considerare l’università come parte degli obiettivi di sviluppo che il Paese si pone. Per mettere le mani nelle università è più importante chiedersi che cosa serve alla nazione piuttosto che cosa serve ai vari atenei.