Sotto l’ombrellone. Una pagina con le letture migliori del 2010
13 Giugno 2010
Nel 1999, il “New Yorker” se ne uscì con un numero intitolato “The Future of American Fiction”. Oggi, a più di dieci anni di distanza, il settimanale torna a parlare di giovani scrittori americani: “Abbiamo scelto venti scrittori under 40. La più giovane, Téa Obreth, ha 24 anni, e il suo primo libro non sarà pubblicato prima del 2011. Il più vecchio, Chris Adrian, ha 39 anni, e pubblicherà il suo quarto libro l’anno prossimo”. Se amate la letteratura americana fareste bene a prendere appunti, perché il “New Yorker” non sbaglia un colpo. Negli anni, la rivista fondata nel 1925 da Harold Ross e consorte ha pubblicato racconti di John Cheever, Alice Munro, Roald Dahl, Vladimir Nabokov, John Updike, Richard Yates e avanti fino al compianto Salinger e Philip Roth. Tutti i più grandi sono passati da qui, e il settimanale simbolo dei liberal newyorchesi si è dimostrato il miglior talent scout su piazza.
I criteri di selezione per i nuovi talenti potranno sembrare arbitrari o assurdi, spiega il magazine, ma “la buona scrittura parla da sola, e parla oltre il presente; i migliori scrittori oggi al lavoro sono gli stessi che leggeranno i nostri nipoti e i loro nipoti”. La lista del “New Yorker” getta un occhio “al talento che germoglia e sboccia intorno a noi”, e a testimoniarlo saranno i racconti pubblicati nel corso dei prossimi dodici mesi. “Alcuni candidati eccellenti sono stati esclusi solo perché non avevano un nuovo racconto disponibile per le nostre scadenze”, altri – come Dave Eggers e Colson Whitehead – sono semplicemente nati troppo presto per entrare in lista. I venti selezionati, comunque, offrono uno spaccato esaustivo della narrativa americana contemporanea, dal realismo lirico di Philipp Meyer e Salvatore Scibona alla commedia satirica di Joshua Ferris, dai racconti di genere di Jonathan Safran Foer e Nicole Krauss ai temi sociali trattati da Dinaw Mengestu.
In attesa di leggere le loro storie, ciò che più interessa sono le brevi interviste concesse al “New Yorker” da ognuno di loro. Come lavora uno scrittore? Si può vivere di scrittura? Quali libri hanno segnato gli autori di domani? Alcune risposte sono molto interessanti, tanto per gli aspiranti scrittori quanto per gli amanti della letteratura. Farà piacere, agli italiani, scoprire che il libro che più ha segnato Jonathan Safran Foer (autore degli splendidi Ogni cosa è illuminata e Molto forte, incredibilmente vicino, editi da Guanda) è Le città invisibili di Italo Calvino, mentre per il giovane Joshua Ferris (pubblicato da Fazi) fatale è stato l’incontro con Lolita, richiesto alla propria insegnante di inglese. Da bravi scrittori, gli intervistati sono tutti anche grandi lettori: tra gli autori favoriti compaiono due grandi Roth (Philip e Joseph), McCarthy, Foster Wallace, Vargas Llosa. Una curiosità: Safran Foer e Nicole Krauss, marito e moglie, condividono lo stesso amore per Franz Kafka e Bruno Schulz.
Il “New Yorker” chiede poi quello che tutti gli aspiranti scrittori vorrebbero sapere: “Che cosa fa girare un racconto?”. Alcuni, molto onestamente, ammettono di non saperlo. Altri provano a dire la loro. Secondo Chimamanda Ngozi Adichie, autrice di Metà di un sole giallo (Einaudi), è una questione di emozioni: “La capacità di farmi sentire qualcosa. La capacità di smuovermi in qualche modo. La capacità di toccare qualcosa dentro di me, qualcosa che non viene toccato da un articolo di giornale”. Della stessa opinione è Safran Foer, secondo cui un bel racconto “fa sentire al lettore qualcosa di forte”, mentre David Bezmozgis (Natasha, Guanda) crede che al centro di una qualsiasi opera d’arte debba esserci “una perdita irreparabile”, e la forma del racconto – per mezzo di un uso accurato del linguaggio e del tono – “deve onorare quella perdita, senza cadere nella parodia da un lato e nel melodramma dall’altro”.
Per Nicole Krauss (La storia dell’amore, Guanda), la narrazione ha a che fare con l’identità, e ciò che fa girare un racconto è “la sua capacità di ricordarci chi siamo nel nostro profondo, portandoci allo stesso tempo a una rivelazione”. Secondo Philipp Meyer, invece, non esiste un’unica soluzione: certo è che i grandi scrittori, a differenza degli altri, sanno “creare un mondo completo attraverso il libro”. Senza contare, aggiunge lo scrittore, che “hanno qualcosa di importante da dire, e non hanno problemi a dirlo in pubblico: sono guidati dalle loro idee, non si limitano a riprendere quelle di altri”. Consigli importanti per tutti coloro che hanno un libro nel cassetto. Ma se non doveste diventare grandi narratori non disperate, perché anche gli autori del “New Yorker” hanno pensato di fare tutt’altro nella vita: Daniel Alarcòn (Guerra a lume di candela, Terre di Mezzo) voleva essere “il Diego Maradona peruviano”, Safran Foer voleva fare il dottore (“un grande lavoro, senza perdite di tempo”), Yiyun Li la chimica. Le cose, poi, sono andate diversamente.