Spoil system culturale: con Obama i neocon sono passati all’opposizione
18 Aprile 2009
Negli USA, all’insediamento di un presidente, tutta la galassia amministrativa e governativa viene rivoluzionata da uomini appartenenti al suo entourage, i quali assumono i principali incarichi dell’intero apparato statale sostituendo i precedenti. Ciò è fondamentale affinché la politica del neoeletto presidente possa godere, almeno in teoria, dell’appoggio dell’intellighenzia di cui egli è al contempo artefice ed emanazione. Ciò vale anche per gli istituti di studi politici di Washington con cui l’amministrazione intende lavorare per elaborare le proprie politiche.
Nel passaggio da Bush a Obama, però, non si è assistito solo a un cambiamento di nomi nei gangli decisionali del potere, con il conseguente mutamento degli obiettivi politici, bensì a un profondo spostamento dell’asse culturale del governo, determinato dall’ascesa dei think tank vicini al Partito Democratico che hanno scalzato quelli d’ispirazione conservatrice legati all’amministrazione precedente. Una dinamica tipica della tradizione politica americana, accentuata dalla frattura intellettuale fra Bush e Obama, fatta emergere ad ogni costo durante la campagna elettorale. E’ opinione diffusa, ad esempio, che Bush fosse a capo di una visione ideologica del potere, mentre Obama sarebbe il pragmatico; che il primo avrebbe voluto esportare la democrazia per seguire il progetto di un mondo migliore indipendentemente dalle difficoltà intrinseche alla realizzazione dell’impresa, mentre il secondo intenderebbe approcciare agli scenari internazionali con circospezione realista e mediando il più possibile fra i vari attori sulla scena. Il texano apparterrebbe alla scuola neocon, l’hawaiano a quella neoliberal. Bush presidente di guerra, Obama presidente di speranza.
Per costruire questi sistemi, dove la sostanza politica si somma alla propaganda mediatica, negli USA si avvicendano, quindi, i maggiori esperti americani riuniti nei centri d’eccellenza. Negli otto anni trascorsi – post 11 settembre, è bene non dimenticarlo – l’élite intellettuale e di ricerca che ha esercitato la maggiore influenza sulle politiche di George W. Bush ruotava attorno all’American Enterprise Institute (AEI) di Washington, il think tank dei cosiddetti neoconservatori: fondato nel 1943, l’AEI era stato per decenni snobbato dagli aristocratici istituti di estrazione democratica (nel senso di liberal) con una maggiore esperienza governativa e presunta autorevolezza. Il rilancio del Partito Repubblicano alla fine degli anni ‘90, dopo gli anni bui della presidenza Clinton, era invece dipeso proprio dalle sue politiche innovative e dalla loro efficace compiuta dai think tank conservatori, tra cui l’Heritage Foudation, nata appena nel 1973, con a disposizione un organico di 244 ricercatori e un budget di 61 milioni di dollari.
Oggi questi parvenus – come vorrebbero considerarli negli staff obamiani – tornano all’opposizione, per lasciare il campo ai nomi legati all’attuale presidenza di cui ispirano il programma: la Woodrow Wilson School of Public and International Affairs dell’Università di Princeton, per esempio, fu già nel 2005 la capostipite del futuro modus operandi liberal, coi suoi George Schultz e Anthony Lake, fra i primi a entrare nella squadra di Obama. Ora molto in voga sono anche il Council on Foreign Relations, attivo sin dal 1921, e la celebre Brookings Institution, che affonda le proprie radici addirittura nel 1916: tutte strutture di marcata tradizione liberal-democratica, in questo momento impegnate a fornire i propri uomini alle equipe governative.
In realtà, tali istituti, per creare una loro ampia base popolare di riferimento, come fecero i concorrenti conservatori, hanno dovuto prendere a modello proprio i principi guida dell’Heritage Foundation, e su di essi costituire un nuovo piano di ricerca e sviluppo per le loro attività. È sorto, così, nel 2006, il National Security Network (NSN), un piccolo centro studi dotato di nomi prestigiosi del panorama liberal: Madeleine Albright, Leslie Gelb, Richard Holbrooke. Questo, secondo i tipici sistemi organizzativi dei think tank conservatori, ha il compito d’individuare slogan simbolici da sostenere con proposte ideologiche basate su ricerche e diffondere pubblicamente secondo i migliori sistemi di marketing. E’ così che si conquista una base elettorale, grazie a un linguaggio e a visioni uniformi. Gli stessi dirigenti dell’NSN fanno parte dei think tank maggiori che orbitano attorno alle stanze del potere, in modo da essere in costante relazione con l’apparato politico decisionale.
Quali sono le strategie di politica estera partorite dai pensatoi obamiani? Le numerose questioni di politica internazionale riconducono tutte e immancabilmente all’Iran. Archiviato il principio dell’Asse del Male, in cui Teheran veniva considerata un nemico tout-court da fronteggiare con le maniere forti, la priorità del 44° presidente americano è ritrovare un equilibrio fra forza e diplomazia. Secondo questo assunto, Obama ha a disposizione almeno due grandi opzioni, definite Little bargain e Grand bargain, emerse da tempo in un famoso documento della Woodrow Wilson School, il “Princeton Project on National Security” (Ppns). Pur considerando l’Iran il deus ex machina non solo in Medio Oriente ma nell’intero teatro asiatico, dalla Palestina fino alla Cina, gli analisti si dividono sul tipo di negoziato da intavolare coi vertici iraniani. Nel Little bargain, l’accordo minore, vi è ancora una notevole diffidenza verso Khamenei & co., e sono previsti avvicinamenti non spettacolari e solo su punti dove è forte l’interesse comune, previa, in ogni caso, la sospensione da parte iraniana del programma nucleare. Nel Grand bargain, il grande accordo, invece, l’obiettivo è stabilire un’autentica working relationship fra USA e Iran che abbracci l’intera gamma delle questioni pendenti tra i due paesi, da un lato facendo attenzione a non fomentare i falchi di Teheran, dall’altro offrendo all’Iran il riconoscimento dello status di potenza regionale.
Il Little bargain è una soluzione apprezzata dai pensatori e dagli esperti di entrambi gli schieramenti, specie quelli più anziani e pragmatici, mentre il Grand bargain è in voga fra intellettuali progressisti meno celebri ma sempre più ascoltati dalla Casa Bianca. Fra questi, troviamo Martin Indyk e Richard Haass, fautori di un accordo fra Siria e Israele per indebolire l’Iran, del rinnovo della protezione missilistica americana su Israele e di un aut-aut a Teheran sul programma nucleare. La carota sarebbe rappresentata dal riconoscimento diplomatico americano con incoraggiamenti commerciali. Favorevole al Grand bargain è anche Karim Sadjadpour, proveniente dall’International Crisis Group (ICG); fondato nel 1995, con sede a Bruxelles e un budget annuale di 15.5 milioni di dollari, questo istituto conta 130 ricercatori di 46 paesi, e uffici in tutto il mondo. La teoria da essi proposta parte dall’assunto di dialogare a tutto campo con gli iraniani su Iraq e Afghanistan, moderando le minacce che servirebbero solo ad aizzare i falchi fra cui Hezbollah e Hamas. Lo stesso Sadjadpour, però, pur avendo esposto la propria tesi nell’ottobre 2008 in un policy-brief per il Carnegie Endowment (l’autorevole think tank fondato nel 1910, che pubblica fra l’altro la rivista Foreign Policy, una delle più lette al mondo, diffusa in ben 120 nazioni), è tuttavia pessimista sulla possibilità di relazionarsi con l’attuale regime iraniano.
Se con i teorici di Bush, pertanto, si sperava di risolvere la questione iraniana tramite la soluzione mediorientale (si riteneva, cioè, che, eliminando il fattore destabilizzante iracheno, l’intero Medio Oriente si sarebbe riequilibrato, portando anche l’Iran su posizioni più concilianti), con quelli di Obama ci si prefigge l’opposto: solamente partendo dal dossier iraniano si potrebbe raggiungere un equilibrio regionale (ossia eleggendo l’Iran come attore protagonista dello scacchiere e appoggiandosi ad esso). Lo stesso varrebbe per l’area pakistana, infatti il Center for American Progress (fondato nel 2003, ora diretto da John D. Podesta, ex capo dello staff di Clinton e professore al Georgetown University Law Center), specializzato su questo teatro, auspica l’Iran come unico alleato efficace nella lotta al terrorismo afghano e pakistano. Una posizione condivisa anche da Flynt Leverett e da sua moglie Hillary della New American Foundation, un centro ricerche fondato nel 1999, in rapida ascesa: i coniugi teorizzano un sistema di sicurezza comune fra Usa, Iran e paesi arabi che possa stabilizzare l’Asia centrale.
Al momento, tuttavia, la politica estera di Obama deve registrare la riaccensione dei reattori nucleari da parte della Corea del Nord, fra espulsioni degli ispettori dell’Aiea ed esperimenti missilistici, e il proseguimento del programma atomico iraniano: non grandi premesse per i suoi think tank. Su una cosa tutti gli analisti americani sono però concordi:
quali che siano gli obiettivi internazionali, l’Europa, viste le divisioni interne, i caveat, l’opportunismo commerciale, la tendenza al doppiogiochismo coi paesi arabi e all’immobilismo geopolitico, rimane al massimo un mezzo per sostenere la sovraesposizione militare statunitense, non certo un soggetto politico cui fare affidamento, e su ciò come dargli torto?