Sport e libertà, quando gli atleti denunciano la violenza dei dittatori
12 Gennaio 2023
Sport e regime. Un binomio che nella storia ha spesso lasciato il segno nel bene e nel male. Dalla Bielorussia all’Iran, sono molte le storie di atleti che fanno sentire la propria voce contro i dittatori, la repressione, la violenza in corso nei loro paesi.
Un grido di dolore e di denuncia che, lungi dall’essere limitato alla dimensione sportiva, diventa storia e vita. E’ il caso dei dissidenti del calcio bielorusso. Quarantanove atleti, individuati come nemici dal regime del dittatore Aljaksandr Lukashenko, finiti in una lista di proscrizione e condannati a non poter più giocare a calcio, né nei propri club di appartenenza, né in nazionale. Quarantanove carriere sostanzialmente finite, per aver detto no ai soprusi, alla corruzione e alle leggi liberticide che da anni soffocano Minsk.
Da strumento di propaganda di regime a covo di contestatori e nemici del popolo, il calcio oggi è una spina nel fianco per Lukashenko. Al punto che Vasil Khamutowski, ex portiere della nazionale bielorussa, è sotto processo per attività anti-governative.
A proposito di propaganda, Aliaksandra Herasimenia, ex stella del nuoto bielorusso, tra il 2012 e il 2016 era diventata per Lukashenko un po’ quello che, negli anni’70, Nadia Comaneci era per Ceausescu. La più brillante portabandiera dei valori sportivi nazionali. Un’atleta capace di agguantare due argenti alle Olimpiadi di Londra nel 2012 e un bronzo a Rio de Janeiro nel 2016. Sette anni dopo l’ultimo trionfo, la sua situazione è notevolmente cambiata. Dopo il ritiro dalle competizioni nel 2019, Herasimenia ha denunciato i brogli delle elezioni che hanno riportato Lukashenko al potere, ad agosto 2020. La sua scuola di nuoto è stata chiusa e pochi mesi dopo le è stata confiscata l’abitazione. Oggi Herasimenia vive in esilio e, due settimane fa, ha subito una condanna a 12 anni di carcere in contumacia. Le accuse? Quelle tipiche delle dittature: ha diffuso “informazioni false” chiedendo sanzioni contro la Bielorussia. Oggi aiuta gli altri atleti perseguitati attraverso la Belarusian Sport Solidarity Foundation, da lei fondata.
In un’intervista al sito DeutschlandFunk, Herasimenia ha spiegato che per Lukashenko lo sport è “come un giocattolo. Per questo vedeva i nostri successi come suoi e sentiva di avere il diritto di insegnarci ad allenarci, a nuotare, a correre. Ovviamente nessuno lo prendeva sul serio, ma sapevamo che lo sport era uno strumento di propaganda”.
C’è chi dice no alla guerra e alla dittatura, rischiando in prima persona, pur essendo ancora un atleta nel meglio della carriera. E’ il caso del tennista russo Andrej Rublev, numero 6 del ranking mondiale. Lo scorso novembre, a Torino, al termine di un match delle Atp Finals, Rublev ha preso un pennarello giallo e ha scritto sulla telecamera “pace, pace, pace, tutto quello di cui abbiamo bisogno”. Un gesto coraggioso e significativo. Per un messaggio dal tono simile, postato sui social media, mesi prima, l’ex numero uno del mondo del tennis femminile, la bielorussa Vika Azarenka, aveva dovuto chiudere momentaneamente i profili personali.
Iran e Afghanistan, lo sport come messaggio di libertà
Se ci spostiamo dall’Est Europa, nel pieno di una guerra insensata causata dall’aggressione russa all’Ucraina, al Medio Oriente, il coraggio degli atleti resta una costante e un esempio.
Mehdi Taremi, attaccante del Porto e dell’Iran, reduce dal Mondiale in Qatar, ha scritto in maniera inequivocabile su Twitter che “la giustizia non può essere fatta con un cappio”, in riferimento all’impiccagione di altri due manifestanti, Mohammed Mehdi Karami, 21 anni, e Mohammad Hosseini, 39 anni, uccisi all’alba di sabato. Erano accusati di aver partecipato all’omicidio di un paramilitare basij e sono stati condannati dopo l’ennesimo processo farsa.
Ha evitato il cappio ma resterà in prigione a lungo un altro calciatore iraniano, il 26enne Amir Reza Nasr Azadani. L’uomo era stato arrestato lo scorso novembre perché aveva preso parte alle proteste nella città di Isfahan.
Dall’Afghanistan arriva la storia di Fatima, portiere della nazionale femminile di calcio, di cui si è occupata anche il New York Times. La ragazza stava imparando i fondamentali calcistici con le sue compagne di squadra a Kabul, grazie all’impegno della Federazione afghana. Ma il drammatico ritorno al potere dei Talebani, nell’estate del 2021, ha convinto Fatima a una rocambolesca fuga verso l’Occidente. Oggi vive in Australia. Il ricordo dei valori di indipendenza, emancipazione, condivisione che lei e le sue compagne di squadra stavano apprendendo grazie allo sport è vivo dentro di lei, ma doloroso. Dopo il racconto del Times la storia di Fatima potrebbe diventare un film. “A volte mi sento così forte e voglio continuare a condividere la mia storia e motivare altre persone”, ha spiegato. “Sto facendo la differenza, spero”.