Sprecopoli dimostra l’inutilità delle Regioni: un partito riformista dovrebbe ri-cominciare da qui
23 Settembre 2012
La settimana di passione nel Pdl si è conclusa con la nobile proposta di mandare in galera i delinquenti, a spasso gli incapaci e fare emergere i meritevoli nel partito e nelle istituzioni. Naturalmente, con queste premesse, non ci si poteva attendere altro che il via libera al prosieguo dell’esperienza della Regione Lazio. Dopo tanto tuonare, insomma, non piovve. Ma non uscì neanche il sole, si potrebbe dire. Questa la sintesi.
La realtà che resta sotto i nostri occhi, non guardando soltanto al letame che viene spalato alla Pisana, è quella di un Paese corrotto, infettato nelle sue istituzioni, in preda a convulsioni incontenibili. Ovunque, soprattutto negli enti locali, si ruba con disinvoltura. Ed il ladrocinio è trasversale. Le Regioni traboccano di lestofanti ed incapaci: sono il buco nero della Repubblica. Dovevano avvicinare i cittadini alla cosa pubblica: li hanno miserabilmente ingannati ed allontanati. Lodevole l’iniziativa della presidente della Giunta regionale del Lazio di procedere a tagli drastici. Ma non facciamoci illusioni: non sono i provvedimenti adottati sotto l’onda di piena dell’indignazione popolare a migliorare gli organismi rappresentativi. Occorre la politica. E purtroppo non c’è. Latita. Si è nascosta. È emigrata altrove. Personaggetti in cerca d’autore riempiono il vuoto e così facendo aggravano le condizioni dei cittadini che s’aggirano smarriti in un Paese infelice, ormai assuefatti al peggio che sembra non avere fine.
Dopo la Regione Lazio toccherà alla Campania? E prima gli scandali si sono addensati su Lombardia e Puglia. E prima ancora hanno lambito altri esponenti, sia pure di seconda fila, di altre istituzioni regionali. Fino a quando dovremo occuparci di questi incontrollabili centri di malaffare senza poter far nulla? Fino a quando li vedremo crescere e dilapidare ingenti risorse pubbliche che potrebbero essere impiegate diversamente e più proficuamente?
Negli ultimi dieci anni la spesa delle Regioni è cresciuta di ottantanove miliardi: l’equivalente di tre grandi manovre finanziarie di uno Stato come quello italiano. E, per di più, la gestione dei settori di cui sono titolari gli enti regionali hanno dato prova di inefficienza imperdonabile. Basta guardare la sanità: amministrata dai potentati locali, i quali nominano con disinvoltura direttori delle Asl e creano primari utilizzando criteri esclusivamente politico-clientelari, è la peggiore d’Europa se non proprio in tutti i casi come qualità dei servizi erogati, certamente sotto il profilo gestionale e amministrativo: costa enormemente più che altrove del tutto ingiustificatamente.
Mi permisi su l’Occidentale, l’11 giugno scorso, di sollecitare una discussione minimamente decente sulla prospettiva di abolire Regioni. Naturalmente non si è mosso nessuno a parte qualche voce isolata che ogni tanto si coglie, ma non basta. Mi rendo conto che bisognerebbe scassare una parte significativa della Costituzione demolendo quella triste e folle riforma del Titolo V, ma se si vuol venire a capo del problema non c’è altra strada.
Del resto che le Regioni siano inutili, oltre che dannose, lo prova la storia stessa. Fino al 1970 qualcuno ne sentiva forse la mancanza? Con la loro istituzione la spesa pubblica è andata fuori controllo, alimentando un sistema di corruzione tra i più macroscopici dell’emisfero occidentale. Ecco perché non bastano i pannicelli caldi. Le pur ottime intenzioni della Polverini e di tanti altri che vogliono eliminare gli sprechi non basteranno a risolvere il problema. Le Regioni non sono il cancro da estirpare, sono le metastasi del sistema politico. O si interviene alla radice o l’Italia è condannata a farei conti, anno dopo anno, con un immiserimento che trae origine dalla dilatazione delle burocrazie politico-affaristiche che hanno fatto il loro nido caldo proprio nel cuore delle Regioni.
Bastano i Comuni come enti rappresentativi e limitatamente decisionali; forse, come ente intermedio si potrebbe pensare alle Province regionali, attraverso le quali la presenza dello Stato potrebbe farsi sentire e valere: non sarebbero più di cinquanta. Comunque anche la suddivisione del territorio nazionale in quattro o cinque grandi aree, da non scambiare per entità micro-nazionali (nulla a che vedere,insomma, con la Padania e fandonie simili), potrebbe agevolare la vicinanza dei cittadini allo Stato senza essere sudditi di strutture burocratiche elefantiache e costose.
Se soltanto un terzo delle risorse che oggi finiscono nel pozzo senza fondo delle Regioni venissero date ai Comuni, sono certo che l’Italia rifiorirebbe. Almeno nell’ambito di un’amministrazione locale controllabile e di una partecipazione della gente alla cosa pubblica.
La nostra tradizione storico-culturale del resto è comunale. Il resto, costruito artificiosamente, non per armonizzare interessi e bisogni, ma per istituire centri di corruzione partitocratica (come stiamo vedendo), è da cancellare perché non ci appartiene.
Lo scrivano, se ne hanno il coraggio, i partiti nelle loro agende in vista della campagna elettorale, che le Regioni non servono: guadagneranno la simpatia di tutti gli italiani, escluso chi lucra su di esse, e daranno un tocco di serietà al loro riformismo fin qui sempre meno credibile.