Sri Lanka, i profughi sotto il fuoco incrociato dell’esercito e dei Tamil
28 Gennaio 2009
57 persone di 18 diverse famiglie sono arrivate il 31 dicembre a Vannamoddai, credendo di essere finalmente in salvo e di poter festeggiare un inizio d’anno speranzoso. Non stiamo parlando dell’Eldorado srilankese ma di un edificio che l’esercito ha adibito a rifugio temporaneo per i profughi scampati alle bombe e da un incubo che dura da settembre.
L’esercito, lanciato nell’offensiva finale per riportare il paese sotto il controllo del governo, non accetta che vengano aperti dei corridoi umanitari per le migliaia di civili sotto attacco. Le poche immagini che abbiamo della tragedia sono le stesse da mesi: carovane di famiglie che si spostano tutte verso la stessa direzione, in attesa di nuove migrazioni. Nel settembre del 2008 il governo aveva chiesto e imposto a tutte le agenzie delle Nazioni Unite e alle ONG nei territori occupati (A Nord-Est del paese) di evacuare le area controllate dai ribelli, visto che era impossibile garantire l’incolumità degli operatori umanitari. Da quel momento è iniziata l’ultima battaglia che dovrebbe portare a una pace tanto agognata quanto insanguinata. Ma un governo a maggioranza sinhalese, che considera i tamil ospiti dell’isola, difficilmente riuscirà a mantenere l’ordine per molto tempo. Lo scenario terroristico che potrebbe delinearsi è agghiacciante.
Le Tigri ormai hanno perso il controllo della situazione. Dopo aver perso questa battaglia quattro mesi fa, invece di difendere i diritti della minoranza tamil, si arroccano in posizioni assurde. Hanno continuato a reclutare minorenni (ragazzi e ragazze, senza distinzione di sesso) trascinandoli in una lotta disperata. Hanno contribuito a mettere in ginocchio un’etnia che ora viene vista come un nemico dalla maggioranza della popolazione.
I Tamil, i civili, quelli che sono solo nell’etnia sbagliata al momento sbagliato, che scappano per non farsi sequestrare i figli dall’LTTE, che cercano scampo dall’esercito e dalla polizia, sono tutte le vittime di un conflitto che non accenna a finire. Dopo la tempesta da queste parti c’è sempre un’altra tempesta, l’arcobaleno non vuole spuntare. E la gente muore. Nei distretti del Nord più dell’80% delle case ricostruite dopo la tragedia dello Tsunami è stato distrutto o danneggiato dai bombardamenti. Il 100% di queste abitazioni è disabitato.
Vannamoddai è il terzo campo di “detenzione” costruito nella regione di Mannar, nella zona nord-occidentale del Paese. Qui arrivano i civili che hanno camminato per giorni, tra le mine, tra i cannoni, seppellendo i loro familiari durante il cammino, e che adesso si ritrovano chiusi in un campo di concentramento fatto di tende dell’esercito ed edifici militari. Le organizzazioni umanitarie possono entrare solo se ottengono il permesso dei soldati. Non è possibile fare molto come operatore umanitario: le organizzazioni sociali e internazionali hanno paura a rilasciare una dichiarazione che condanni la situazione e le due parti che si combattono. L’unica speranza di questa regione è l’ufficio di Caritas, un giovane prete e 60 operatori locali che si spostano con i rifugiati da mesi. La sola organizzazione rimasta. Tutte le mie preghiere sono per loro.
Persino la chiesa locale non parla, a stento si prega per questo massacro. Il mondo ha i riflettori puntati su Gaza, se qualcuno provasse a vedere cosa succede qui si accorgerebbe di quello che sta succedendo. Ci sono due parti in causa: un gruppo di ribelli estremisti e sanguinari, che hanno perso il lume della ragione, e un governo legittimato che crede di poter fermare il terrorismo uccidendo anche i civili. Stretti in una morsa fatta di fuoco, morte, pianto e poche speranze.
*Valentina Ferraboschi è una operatrice della Caritas francese in Sri Lanka