Stato di paura, anche quando non ci sono i terroristi è come se ci fossero

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Stato di paura, anche quando non ci sono i terroristi è come se ci fossero

06 Giugno 2017

La paura della morte violenta è un sentimento naturale, tanto importante che per Thomas Hobbes gli uomini rinunciano alla libertà dello stato di natura quando scoprono che anche il più forte può essere ucciso ed entrano nello Stato rinunciando ai propri diritti illimitati in cambio della sicurezza. Per Hobbes la libertà dipende solo dal silenzio della legge e per Skinner della Libertà prima del liberalismo l’illiberale Hobbes è un teorico ante litteram della libertà negativa “e sta con forza a ricordarci per che persino i liberali non hanno il monopolio della libertà”. Hobbes è ancora oggi, purtroppo, straordinariamente attuale: quando prospetta il dilemma di chi sceglie la sottomissione di fronte al nemico, per Hobbes l’uomo ha la libertà di non sottomettersi al nuovo padrone, ma decide di assoggettarsi perché altrimenti sa che sarà ucciso.

Il ‘600 è lontano, ma il dilemma di Hobbes è tremendamente attuale. Lo abbiamo visto a Londra sabato sera, quando tre uomini con false cinture esplosive per diffondere il panico hanno prima investito con un furgone chi passeggiava sul London Bridge, poi, armati di soli tre coltelli, hanno iniziato a colpire cittadini nei pub o nelle strade della capitale inglese. Un attentato che non necessita neppure di un network, di una “base” che impartisca ordini, anche se Isis, lo Stato Islamico ormai alle corde, l’ha rivendicato. Un attentato che però sconvolge più degli altri, dove i kamikaze c’erano davvero. 

L’immagine di giovani forti, ma inermi, che fuggono terrorizzati per le strade di Londra, dà il senso di quanto ormai sia limitata la nostra libertà. Bastano delle cinture esplosive false per avere paura di un nemico che ha solo un coltello e farsi anche ammazzare. A Torino, in contemporanea all’attentato di Londra, la folla che assisteva in piazza San Carlo alla partita Juventus-Real Madrid, si è data alla fuga perché, come dice Marco Travaglio, che aveva lì la figlia,”ormai i terroristi, anche quando non ci sono, è come se ci fossero”. Invece qualche “republicones” delirante paragona la folla in fuga di Torino addirittura a Schettino, il comandante codardo della Concordia. Repubblica tira in ballo anche Michel Houellebecq, i giornali islamofobi, che trasformano tutti i musulmani in demoni, gli allarmi sulla morte dell’Occidente invaso da immigrati stupratori. Si attacca addirittura alla Grande Paura di Georges Lefebvre per dire che i nemici, “gli untori”, sono i poveri cittadini torinesi inermi, fuggiti per paura di morire.

Se è bastato un petardo o un tonfo qualsiasi a provocare il panico, significa, che ormai i terroristi, anche quando non ci sono, è come se ci fossero. L’immagine del kamikaze è ormai parte di noi. Naturalmente, se a chi è fuggito in preda al panico a Torino, qualche giornalone avesse chiesto cosa pensa della società multietnica il fuggitivo avrebbe risposto che è meravigliosa. Gli italiani sono talmente dominati dal politically correct dei media, della scuola e delle università, che hanno paura a dire ciò che pensano. Però la fuga di Torino ci dice a che punto sia la paura degli italiani.

Il politically correct ci racconta che è solo colpa nostra, di noi bianchi xenofobi e razzisti, se abbiamo paura o se avanziamo qualche sospetto sullo splendido futuro del melting pot. Eppure vediamo come negli Stati Uniti il razzismo pervada il paese a tal punto che il New York Times il 2 giugno ha pubblicato un editoriale di Frank Bruni, intitolato “These Campus Inquisitions Must Stop”. Nei campus americani è in corso una strana inquisizione, che forse piacerebbe a certe penne di Repubblica: sono gli studenti neri a chiedere ai bianchi di andare via e a esigere il licenziamento di professori bianchi progressisti, perché sono bianchi, quindi razzisti. E non c’entra la religione. C’entra la lotta più antica del mondo: quella per il potere assoluto.