Stop della Turchia in Iraq, ma il PKK è sempre lì

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Stop della Turchia in Iraq, ma il PKK è sempre lì

Stop della Turchia in Iraq, ma il PKK è sempre lì

01 Marzo 2008

Si sono fermati. Lo Stato Maggiore turco ha confermato la
sospensione della grande offensiva nel nord dell’Iraq lanciata il 21 febbraio e
il rientro delle truppe nelle basi di partenza sul proprio territorio.
Curiosamente nel comunicato ufficiale che annunciava il ritiro, i militari
hanno precisato che la decisione è stata presa senza alcuna pressione
proveniente dall’esterno. Una precisazione troppo frettolosa e rimarcata per
non suscitare il sospetto che i consigli americani non siano in realtà stati
seguiti alla lettera e abbiano alla fine riportato a più miti consigli il
Governo e lo Stato Maggiore turco. Il sottosegretario alla Difesa americano
Gates, fermatosi ad Ankara di ritorno da un viaggio in India, era stato fin
troppo esplicito nel presentare la posizione dell’amministrazione agli amici
turchi: le truppe di Ankara non potevano andare oltre e, come si suol dire,
avrebbero dovuto fare marcia indietro. Il pericolo di un incendio in tutto l’Iraq
del Nord, potenzialmente innescabile dall’azione militare turca in quella che
finora è la zona più tranquilla del Paese, è una prospettiva che suscita
apprensione a Washington, scarsamente disponibile a doversi occupare anche di
riportare l’ordine ad Erbil e Kirkuk, come se non bastassero tutti gli altri
problemi che in questi tempi la assillano. Le pressioni sembrano aver dato il
risultato voluto, a Washington, ma anche a Baghdad, dove sciiti ed il
presidente Talabani, per non parlare dei sunniti, non vedevano l’ora che le
truppe turche se ne tornassero di là dal confine: troppo delicati gli equilibri
in Iraq, non solo al nord, per potere reggere anche a questa ulteriore
sollecitazione.

I militari turchi avrebbero voluto spingere l’azione più in
profondità, fin nel cuore della “resistenza” del PKK arroccata attorno al
bastione del monte Qandil, ma allo stesso tempo non potevano ignorare i
desiderata degli alleati americani. Il potere militare, asse portante della
Repubblica turca, dipende dal supporto americano. Con un’industria nazionale
ancora scarsamente pratica in materia di progettazione di sistemi d’arma
complessi – essenzialmente navi, velivoli da combattimento e carri da battaglia
– le forniture americane, sempre generose, sono fondamentali. Anche se negli
ultimi anni c’è stato un significativo sforzo di differenziazione – con la
partnership strategica con Israele e i legami nel settore sempre più stretti
con l’Italia e la Corea
del Sud – il rapporto bilaterale con gli USA resta la migliore garanzia per la
sicurezza turca.

Per questo Ankara si muove sul fronte curdo da spericolata
equilibrista, imitata in questo dagli stessi americani che devono tenere
assieme i cocci iracheni e contemporaneamente rassicurare l’alleato turco. Fino
al 21 febbraio le azioni militari turche sono state tutto sommato limitate:
raid aerei e operazioni circoscritte condotte da commandos, mentre gli
americani sono stati ben lieti di fornire tutto l’appoggio di intelligence
possibile. Con questa azione, però, si è superato il limite politicamente
tollerabile. Due brigate regolari, forze speciali, elicotteri, di cui uno
parrebbe abbattuto dagli Strela dei “resistenti” del PKK, artiglieria. Troppo
per non suscitare allarme ed apprensione, tanto a Washington quanto in Europa e
in Medio Oriente. Ankara ha ripetuto in tutte le salse come l’azione, pur
essendo di scala molto più ampia rispetto a quelle condotte a partire dallo
scorso autunno, quando il Parlamento turco ha autorizzato le Forze Armate a
condurre azioni militari in Iraq, avesse un carattere circoscritto e limitato
alla neutralizzazione di alcuni santuari del PKK in territorio iracheno
garantendo allo stesso tempo che non vi sarebbe stato nessun coinvolgimento
della popolazione civile – peraltro poca e restia ad abitare zone così
impervie.

Sull’efficacia dell’azione militare è lecito nutrire qualche
dubbio. Al di là del conteggio sulle perdite, mai del tutto certo in
considerazione dei dati spesso differenti forniti dalle due parti, resta il
sospetto che i veri bastioni del PKK, situati appunto nella zona del monte
Qandil, al confine con l’Iran e a 100 km dal confine turco, siano stati appena
toccati dall’azione militare delle truppe turche. Il terreno è difficile –
montagne, assenza o quasi di comunicazioni, neve – e per un’azione veramente
efficace non sarebbero bastati 50.000 uomini o forse di più. Già a metà anni
Novanta l’Esercito turco provò a ripulire l’area del Qandil, imbastendo una
massiccia operazione con l’appoggio dell’Aviazione, ma i risultati furono
limitati e anche in quell’occasione il problema restò senza soluzione.

L’azione ha, pertanto, assunto un carattere più che altro
dimostrativo. Gli ottimi militari turchi sanno che la guerra vera al PKK non la
possono fare, perché, come si è visto, gli americani sono molto convincenti
quando predicano moderazione, allora utilizzano la leva militare come strumento
comunicativo. Diplomazia della violenza si chiama. Ovvero uso limitato della
forza come momento dell’interscambio politico-diplomatico. Alla controparte si comunica
con le armi anziché con le parole. Ma la controparte, ecco la sorpresa, non
sembra essere il PKK, bensì il Kurdistan iracheno autonomo. Ankara, più che il
PKK, infatti, vede come il fumo negli occhi la prospettiva di un Kurdistan
iracheno (troppo) autonomo. Sarebbe molto più questo, dei miliziani del PKK, il
vero pericolo per la propria sicurezza. Allora ecco che si attaccano le basi
del PKK in territorio turco, ma in realtà si lanciano messaggi ai curdi
iracheni invitandoli a mantenere nell’alveo del possibile, ovvero della realtà
politica, le proprie spinte autonomistiche.

Durante la settimana della “mini-invasione” turca, il
presidente della regione autonoma del Kurdistan iracheno, Massoud Barzani, ha
ammonito le truppe di Ankara a non andare oltre coinvolgendo la popolazione
civile, pena il rischio di incontrare sulla loro strada gli agguerriti
peshmerga. Una prospettiva da incubo per tutti, con buona pace di quel poco che
gli americani sembrano aver ottenuto nell’ultimo anno di surge iracheno.

Tuttavia il rischio c’è, così come il problema, e il ritiro
delle truppe turche non lo ha certo allontanato. Il problema riguarda i limiti
effettivi dell’autonomia dell’Iraq del Nord e, soprattutto, il nodo della città
di Kirkuk. Il referendum sullo status della città è stato fatto slittare a
giugno dopo essere stato rinviato già altre due volte. Con la consultazione si
dovrà decidere il destino della città e la sua eventuale accessione alla
regione autonoma curda, che adesso comprende le province di Arbil, Dohuk e
Suleimaniya. Sono in molti a temere che la città, con le sue enormi ricchezze
petrolifere e di gas naturale, possa fornire una significativa base economica
alla regione curda tale da giustificarne un domani eventuali aspirazioni indipendentistiche,
con conseguenze inimmaginabili sugli equilibri regionali. Sarebbe il
coronamento di un sogno. Un sogno che, però, ha i connotati dell’incubo per la Turchia che non può
tollerare questa prospettiva. Non è un mistero che Ankara abbia fatto di tutto
per far slittare il referendum ostacolando la messa in atto della politica di
de-arabizzazione prevista dall’articolo 140 della nuova costituzione irachena,
tesa a riportare nelle proprie terre di origine gli arabi trasferiti
forzosamente a Kirkuk durante l’operazione Anfal, lanciata negli anni Ottanta
da Saddam per alterare gli equilibri etnici regionali.

E’ chiaro che il
presidente iracheno Talabani si affretta in ogni occasione a negare che un
Kurdistan autonomo oggi con Kirkuk “capitale”, significhi un Kurdistan
indipendente domani. Talebani è un leader pragmatico e ha ancora ottimi
rapporti con Ankara e sa che spingersi oltre un certo limite significherebbe
mandare in fumo l’equilibrio iracheno, ma non solo. Meno incline alla
moderazione, invece, è il suo amico/rivale Barzani. I suoi rapporti con il PKK
sono perlomeno ambigui e, da molti, viene anzi accusato di aver apertamente
favorito il rafforzamento del PKK negli ultimi due/tre anni, offrendo basi
sicure e anche armi. Chissà, magari i miliziani del Partito Comunista dei
Lavoratori un domani potrebbero tornare utili in caso di scontro con la Turchia qualora le mai
sopite ambizioni di indipendenza dovessero effettivamente concretizzarsi.

Cattivi pensieri, forse. Certo è che l’equilibrio è estremamente delicato.
Probabilmente tra i monti dell’Iraq settentrionale sono in troppi a giocare in
modo spregiudicato la carta della strategia della manipolazione del rischio. Si
spinge la posta sempre più avanti, confidando sulla scarsa disponibilità della
controparte a spendersi in un conflitto su larga scala, e così si ottiene un
vantaggio. Il punto è che il controllo della strategia si può anche perdere,
sbagliando il calcolo, e, invece del guadagno, si ottiene la reazione su larga
scala della controparte. Il PKK si sente sicuro nei suoi santuari e sa che la
reazione turca non può superare un certo livello. Ankara, fidando sulla
generosità di Washington, arriva a lambire pericolosamente il limite di questa
stessa generosità, mentre Barzani è fin troppo attivo nel giocare la sua parte
di più sicuro alleato degli americani in Iraq sentendosi quindi libero di
chiedere sempre di più. Il problema è che la corda può anche spezzarsi perché,
magari, qualcuno, confidando troppo sui freni che operano sulla controparte, la
tira più del dovuto.