Storia dei bassi napoletani tra poesia, degrado e influenza suina
22 Novembre 2009
Lo stillicidio dei decessi per influenza da virus A/H1N1 (febbre suina) che si registra in Campania, precisamente a Napoli, non è più tollerabile. L’essere un porto di mare sicuramente non assolve la città, dal momento che i dati epidemiologici rilevati negli ultimi due secoli ci confermano che la prima ad essere colpita col più alto tasso di infezioni è stata proprio quest’antica capitale del nostro Mezzogiorno. Non sempre ci si è soffermati sulle cause che condannano questa magnifica città e il suo hinterland a soccombere per l’altissima densità di abitanti dei bassi, assiepati nei vicoli malfamati, e per la loro fatiscenza.
Sui bassi di Napoli si è molto scritto, spesso facendo la fortuna di molti personaggi. Con i vicoli, gli angiporti, i fondachi, visti come simboli di un mondo fantastico e pittoresco, esso ci è stato presentato meno nella sua realtà storica e socio-economia, tanto che la sua vera fisionomia resta sconosciuta ai più. Non vi si è sottratto neppure il teatro di Eduardo quando in “Napoli Milionaria” ci presentava – a mo’ di documentario – gli abitanti di quei tuguri come i classici di una cultura tutta partenopea che, nonostante “l’abbandono di dio e degli uomini”, riuscivano a sopravvivere sorretti da una filosofia del tutto originale.
Del basso cominciò a parlarne Boccaccio, quando nel 1325 fu condotto dal padre in questa città all’età di dodici anni da restarne favorevolmente colpito, per poi descriverlo nel suo Decamerone: “…guardo quelle che siedono presso la porta delle loro case in via Capuana; di ciò gli occhi porgendo grazioso diletto…”. E più di recente E.A.Mario nella canzonetta “O vascio”, il quale tessendo l’elogio di quel tipo di abitazione, declamava: “…Se ospita una bella ragazza, esso è migliore di una reggia”.
E’ noto che “ ’o vascio” è un’abitazione composta di una o due stanzette a pian terreno, ricavata da antichissimi locali destinati a depositi che in successione si aprono nei numerosi vicoli della Napoli del centro storico e in alcuni paesini della periferia. In poco più di una dozzina di metri quadri ci vive una famiglia di almeno 8 persone. La funzione di questo locale è praticamente quella di mero dormitorio, dato che la maggiore attività, fatta di piccoli espedienti è vissuta lungo i vicoli, sì da conferire ad essi un carattere di intimità, da suscitare nel visitatore la sensazione di trovarsi non in una strada, ma in una calda, accogliente grossa abitazione. In senso lato, il nome di basso può essere attribuito sia a quei gruppi di edifici a piano matto che si costruivano nel medioevo come magazzini per il commercio delle merci provenienti dal mare, sia riferito a un processo di differenziazione sociale e ambientale delle zone destinate al basso ceto. Vale a dire un fondaco che, a spregio della modernità, ancora sopravvive in città di mare come Dublino e Anversa. Ma a differenza di questi ultimi, nei bassi di Napoli vi è racchiusa una parte della storia di una Capitale. Terra ambita da poeti, scrittori e curiosi d’ogni sorta per la dolcezza del suo clima, la natura voluttuosa, il folclore multiforme dato dalle diversissime e antichissime origini antropologiche del suo entroterra che poco hanno a che vedere con la ‘grande’ storia, Napoli, da città impegnata quale era destinata ad essere, negli ultimi decenni è divenuta un luogo irreale. In verità, questa Napoli leggendaria non è mai esistita se non nella fantasia dei suoi ‘ignari’ detrattori. Oggi questa facciata sta sgretolandosi sotto il peso di enormi contraddizioni e, come tutte le megalopoli mostra le sue disfunzioni più visibili dovute ad un’inammissibile incuria amministrativa, al sottosviluppo, alla malavita e alla diffusa sottocultura, da cui una insanabile frattura sociale tra il popolino e un’èlite di grande spessore culturale ma eccessivamente dottrinale, che stoicamente, e diciamo pure, eroicamente, ancora vi risiede: fattori che hanno impedito il consolidarsi di una vera democrazia, come in tutto il nostro mezzogiorno.
Tornando ai “ricoveri”, parte di essi sopravvivono fin dal secolo XV, legati al fenomeno del primo grosso inurbamento europeo. Mentre i governi di molte città dell’epoca procedevano alla trasformazione edilizia adattandola ai mutati tempi, gli Aragonesi per evitare lo spopolamento della campagne circostanti si limitavano a emettere una serie di ‘prammatiche’ (ordinanze) contro lo sviluppo edilizio. Gli immigrati, composti per lo più di contadini, piccoli artigiani e trafficanti di diversa natura non trovando alloggi, perché quelli restanti venivano occupati dalle famiglie nobili del regno e dai funzionari e militari spagnoli, finirono per adattarsi in vani unicellulari destinati inizialmente a depositi. Da allora, i cosiddetti bassi si moltiplicarono a vista d’occhio senza che nessun Governo successivo se ne curasse, tanto che verso la metà del XVIII secolo, invece di diminuire a causa del perdurante divieto urbanistico, la popolazione superò il mezzo milione, portando Napoli al primo posto tra quelle d’Europa per densità demografica. Nonostante i Borboni procedessero ad ampliare le mura cittadine, si dovette attendere il colera del 1884 per riconoscere che questi agglomerati prossimi al porto costituivano un terreno fertile per malattie a carattere epidemico.
In tale occasione il censimento denunciò 22.785 locali di quel tipo, occupati da 105.257 abitanti. L’intera Italia trasalì, richiamando l’attenzione dell’Europa. “Bisogna sventrare Napoli”, fu allora la frase alla moda; sembrava che il Governo centrale non desiderasse altro che far sparire da Napoli le abitazioni malsane. Difatti qualche anno dopo si diede inizio ai lavori di “risanamento” limitandosi ad elevare una specie di paravento dinanzi alla Napoli dei vicoli. Furono abbattute anche vecchie case patrizie, ma il sudiciume dei bassi rimase. Ne “Il ventre di Napoli” la lungimirante Matilde Serao su Il Mattino lanciò una furibonda invettiva al premier di allora, Agostino De Pretis: “Sventrare Napoli? Credete che basterà? Voi vi lusingate che basteranno tre, quattro strade, attraverso i quartieri popolari, per salvarli. Voi non potrete lasciare in piedi le case lesionate dall’umidità, dove al pianterreno vi è il fango e all’ultimo piano si brucia nell’estate e si gela nell’inverno; dove le strade sono ricettacoli d’immondizie, nei cui pozzi, da cui si attinge acqua così penosamente, vanno a cadere tutti i rifiuti umani e tutti gli animali morti […] il cui sistema di latrine, quando ci sono, resiste a qualunque disinfezione, bisogna ricostruire Napoli quasi daccapo…”.
Il recente crollo del palazzo in un vicolo dei quartieri spagnoli e una chiesa di Forcella che cade a pezzi sono l’emblema di questo degrado. C´è un vecchietto in questo quartiere, (che ha dato i natali a Nino Taranto e a Bud Spencer), che raccoglie e conserva i bulloni che cadono dalle impalcature di una antica Chiesa: “Faccio la collezione, così quando moriremo tutti, troveranno il mio tesoro e sapranno che è stata colpa dell´indifferenza”. I bombardamenti dell’ultima guerra che distrussero oltre centomila appartamenti in tutta Napoli non evitarono che si ricostruissero nuovi bassi. Oggi questi terranei fatiscenti sono molto più puliti e meno squallidi di come apparvero a Renato Fucini nel 1877 che descrisse in “Napoli a occhio nudo”. Anzi appaiono illeggiadriti da tendaggi e vivacizzati da televisori, poster ed elettrodomestici, magari raccattati a quattro soldi alla Duchesca. Nati come ricoveri temporanei, questi locali sono divenuti dimore stabili per delinquenti ed emarginati.
Vero è che negli anni sessanta sono stati creati altri rioni popolari in alcune zone periferiche, ma è anche vero che gli appartamenti finiscono per essere assegnati a famiglie di nuova formazione che, abbandonando ancora le campagne si trasferiscono in città. Ma l’appartamento per tutte non c’è, ed alcune vanno ad occupare i nuovi depositi e li trasformano in nuovi bassi. Talvolta qualche inquilino di questi tuguri riesce a farsi assegnare un alloggio popolare come è avvenuto con la legge 487 a Scampia, a Pianura e a Ponticelli. Ma essendo questi alquanto distanti dal centro, adattando a sé le leggi vigenti, danno in affitto l’alloggio buono e rimangono compiaciuti nelle loro ‘tane’: lì se non altro possono continuare i loro commerci abusivi provenienti dal porto al riparo da occhi ‘indiscreti’. Si è pertanto ricreato l’antico circolo vizioso difficilissimo da stroncare.
Dal momento che investe una cultura secolare, la tragica realtà dei bassi esula da un semplice problema esistenziale locale per divenire un fatto di politica nazionale connesso ai fenomeni della malavita, dell’emarginazione e della endemica disoccupazione.
Purtroppo il censimento più recente risale ad un’indagine della Doxa di mezzo secolo addietro (1965). Si contavano 45.000 bassi con un numero di abitanti che superava le 300.000 anime (come dire uno ogni otto napoletani). All’esterno di ciascuna di queste case censite nel lontano 1931 con intenzioni ‘risanatorie’, che la guerra vanificò, c’è una targa di marmo con una scritta significativa: “Terraneo non destinabile ad abitazione”. E’ una frase beffarda e provocatoria che sta a testimoniare una volontà fatta solo di belle intenzioni.
Tra le tante conclusioni che si possono trarre, la prima che viene in mente è che malgrado l’impegno civile di sempre più numerosi cittadini, il ‘basso’ resta comunque il vergognoso emblema di un secolare disinteresse politico-amministrativo verso una città che, ciononostante, assieme ad altre, fu e per alcuni versi è ancora considerata la culla di una cultura umanistica di prim’ordine.