Storia delle studentesse rapite da Boko Haram e della memoria corta dell’Occidente
09 Gennaio 2017
Sono passati mille giorni da quando duecentosettantasei giovani studentesse furono sequestrate da combattenti del gruppo terrorista Boko Haram a Chibok, in Nigeria. Alcune decine sono riuscite a fuggire, o in qualche modo sono state salvate, del resto, invece, ben duecento ragazze, non si hanno più notizie. Le superstiti hanno rivelato al mondo storie terribili di soprusi e violenze. Ma dopo l’indignazione di rito iniziale, l’attenzione è scemata in maniera inesorabile. Era aprile del 2014 e a macchia d’olio i social network si riempirono di cartelli con su scritto Bring back our girls, “riportiamo indietro le nostre ragazze”. Si era diffusa la notizia di quanto accaduto il 14 aprile del 2014: una cinquantina di terroristi, a bordo di una decina di camion, erano arrivati a Chibok, nel nordest del Paese, dando alle fiamme case ed edifici pubblici. Seminato il caos, fu il momento di attaccare la scuola e rapire le adolescenti. Solo dopo diciannove giorni di pressioni a livello internazionale il governo fu costretto ad ammettere il sequestro.
Circa un mese dopo, il leader del gruppo armato, Abubakar Shekau, in un video, rivendicò l’azione: “sono io ad averle sequestrate”. La telecamera lo ritraeva circondato da decine di bambine avvolte in un chador nero. Si riusciva ad intravedere solo una piccola parte dei giovanissimi volti. Dopo un po’ di giorni, circa una sessantina di ragazze scapparono testimoniando le violenze subite. Nei racconti raccapriccianti c’era la denuncia dell’obbligo di conversione all’islam a cui tutte erano state sottoposte, e poi le violenze sessuali: le più giovani venivano stuprate fino a quindici volte al giorno. Le ragazze vergini furono vendute per duemila naira – l’equivalente di 6,08 euro – o date in spose ai leader del gruppo. Intanto la minaccia di sgozzarle se avessero rifiutato di eseguire gli ordini pendeva sulle loro teste.
In un altro video, Shekau, togliendo ogni speranza alle famiglie che ancora cercavano le ragazze, disse “dimenticatevele, perché sono sposate da tempo”. Ma se le luci dei riflettori si sono spente, le giovani non hanno smesso di vivere un eterno calvario. L’ex presidente della Nigeria, Olusegun Obasanjo, ha dichiarato senza mezzi termini che le ragazze “non verranno mai ritrovate, è inconcepibile riportarle tutte indietro. Credete che le tengano insieme?”. I numeri ballano sotto una coltre di mistero, ma la liberazione delle ventuno giovani sequestrate a ottobre, e di un’altra, insieme ad un neonato di sei mesi, giovedì scorso, lasciano ancora un filo di speranza. In un quadro senza colori, in cui si leggono dichiarazioni come quella di Gloria Dame – sfuggita alle mani dei sequestratori islamici – “Per un mese e dieci giorni siamo rimaste senza cibo. Non abbiamo mai pensato che questo momento sarebbe arrivato, ma Dio lo ha reso possibile”, è d’obbligo un breve passo indietro.
Boko Haram era noto a livello internazionale ancora prima della sua adesione allo Stato islamico. Nella sua ‘crociata’ contro gli occidentali, il gruppo terrorista si è sempre autodefinito “popolo sunnita per la predicazione e il jihad”, anche se sui media occidentali si è preferito usare la locuzione africana “l’istruzione occidentale è proibita” (che pure è tutto un programma), un po’ come con Isis, quando lo chiamano “Daesh” invece che Stato islamico, perpetuando l’illusione che si tratti di qualcosa di diverso dal fondamentalismo islamico. E invece l’organizzazione nigeriana rappresenta proprio la costola della internazionale jihadista nell’Africa occidentale, con regole e metodi perfettamente allineati a quelli esposti dal Califfo Al Baghdadi, tanto da spingere le ragazze e i bambini rapiti da Boko Haram ad una tragica gara per diventare kamikaze. Sembra un paradosso, ma non lo è. Di altro non si tratta se non del tentativo disperato di fuggire. “Era sempre la stessa scena. Loro venivano da noi e chiedevano: chi vuole sacrificarsi? Le ragazze cominciavano a urlare: ‘Io, io, io’. Facevano a gare per diventare kamikaze”, racconta Fati, 16 anni.
La motivazione è semplice: “Non eravamo indottrinate. Volevamo solo scappare da Boko Haram. Se ci avessero dato una cintura esplosiva, magari avremmo incontrato dei soldati nel tragitto e avremmo potuto avvisarli e salvarci. Avremmo potuto fuggire”. La ragazzina alla Cnn ha raccontato anche che dopo l’essere stata maritata ad un jihadista, è stata stuprata per quasi due anni senza sosta. “C’erano così tante ragazze che non riuscivo a contarle tutte”. Abusate, “venivamo picchiate se non obbedivamo agli ordini. Non avevamo niente da mangiare. Potevamo contare le costole anche dei bambini una a una tanto sporgevano”. Da un rapporto dell’Unicef emerge che il 75% dei giovani utilizzati dai terroristi sono di sesso femminile. Al di là del caso delle ragazzine rapite, infatti, in quella parte del mondo ci sono storie che mettono i brividi, su cui non si accende alcun riflettore. Forse perché si parla di Islam? Rachel Daviguidam, 30 anni, madre di sette figli, ricorda ancora il giorno in cui i terroristi islamici hanno invaso nel settembre scorso il suo villaggio, Golvadi, nella regione dell’Estremo nord del Camerun. Prima di settembre, “per tre mesi di fila i terroristi sono entrati in casa mia per frustare me e i miei figli”.
Il motivo è semplice, “Siamo cristiani, ma loro ci chiamavano ‘pagani’ e insistevano che ci convertissimo all’islam. Ma noi ci siamo sempre rifiutati”. In principio, i jihadisti “perseguitavano solo i cristiani. Ma presto hanno cominciato a colpire tutti”. Quelli di Boko Haram forse avranno pure abbandonato il progetto di costruire un califfato islamico nel nord della Nigeria, ma se non vogliamo far diventare anacronistiche storie come quella di Rachel, se la difesa delle donne, soprattutto nella sinistra occidentale che ne ha sempre fatto una bandiera, conta ancora qualcosa, i giornali dovrebbero prendersi la briga di raccontare cosa sta succedendo. Invece preferiscono dirci chi è che si è rifiutato di cantare per Donald Trump.