Storia tragica e a lungo rimossa degli italiani di Crimea deportati da Stalin
29 Novembre 2009
Questa è la tragedia di uomini, donne e bambini sradicati, deportati, trattati come carne da macello e abbandonati al loro stessi: dai loro aguzzini e dalla storia. Mille persone, di più secondo altre fonti, che nel 1942 furono mandate a morire lontano da casa dalle truppe dell’Armata Rossa. Solo il 10% di essi, i più forti, sopravviverà agli stenti. Fu che così l’Unione Sovietica staliniana cancellò la comunità italiana di Kerc, in Crimea.
Una collettività che a partire dal 1830 si era stabilita soprattutto in questa città costiera (oggi in Ucraina), situata sullo stretto che collega il Mar Nero con Mar d’Azov, attraverso flussi migratori provenienti da Puglia, Veneto, Campania e Liguria. Da qui gli italiani diffondono anche in altre località della Crimea: Fedosia, Simferopoli, Mariupol. Della loro storia ha parlato ieri Giulio Vignoli, già docente di scienze politiche presso l’Università di Genova che da anni studia l’argomento, durante il convegno ‘L’olocausto sconosciuto degli italiani in Crimea’, promosso a Roma dalla Fondazione Italiani nel Mondo. Venuti a cercar fortuna nella Russia zarista, quegli italiani erano soprattutto agricoltori e marinai (pescatori, nostromi, piloti, capitani). Quasi tutti fecero ‘carriera’, diventando piccoli proprietari terrieri o capitani di lungo corso. Una comunità che nel 1920 contava circa 3 mila persone, prospera e bene integrata e che al contempo manteneva intatte identità e tradizioni. A Kerc avevano la loro chiesa, con tanto di parroco italiano, una scuola elementare, la biblioteca, il club e la società cooperativa.
Per loro i problemi cominciarono dopo la Rivoluzione d’Ottobre, con l’avvento del comunismo. Le accuse di fascismo e di essere nemici della patria spinge molti a tornare in patria, la parrocchia viene chiusa per propaganda antisovietica, gli agricoltori sono obbligati a creare un kolchoz, chiamato ‘Sacco e Vanzetti’. Chi si opponeva, era costretto ad andarsene lasciando i propri averi.
Per quei coloni però il peggio doveva ancora venire. Già costretti in un angolo, l’occasione per disfarsi definitivamente di loro venne con la Seconda Guerra Mondiale. Quando le truppe sovietiche riconquistano la Crimea, precedentemente occupata dai tedeschi, le minoranze presenti sul territorio vengono deportate con l’accusa di essere ‘fasciste’. Per primi vengono presi i tedeschi e a seguire gli italiani. Verrà poi l’ora anche per tartari, ceceni, greci e armeni.
L’Operazione scatta il 29 gennaio del 1942. Alla comunità italiana, che comprendeva anche rifugiati antifascisti che lì avevano riparato, viene intimato di lasciare le proprie case con poche ore di preavviso, consentendogli di portare con se solo lo stretto necessario. Una volta radunati dalle truppe, gli vengono sottratti i documenti e sono fatti salire su tre convogli di vagoni piombati. Comincia allora un lungo, disumano, esodo nell’inverno russo verso l’Asia centrale. Lo stretto di Kerc e il Mar Caspio furono attraversati su navi, dove gli italiani vennero stipati nelle stive. Il viaggio si concluse a marzo, dopo aver attraversato Ucraina, Russia, Georgia, Azerbaigian, Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakistan. All’arrivo quasi la metà dei deportati non ce l’aveva fatta: i primi a morire furono i bambini. I cadaveri venivano buttati fuori dai soldati durante le ispezioni nei vagoni. La destinazione finale del treno era Atbasar e da qui i sopravvissuti furono portati ad Akamolinsk e a Karaganda, abbandonati a loro stessi in baracche di fortuna. Sopravviveranno alla deportazione e agli stenti ai quali furono sottoposti in quelle nuove terre non più di un centinaio di persone.
Spersi nella provincia sovietica, privati di identità e origine, per gli italiani di Crimea la fine dell’incubo cominciò solo con l’ascesa di Kruscev alla guida del Partito, quando furono loro concesse la riabilitazione e la libertà di spostamento. Alcune famiglie si dispersero nel territorio delle Repubbliche asiatiche dell’Unione Sovietica, altre fecero ritorno a Kerc, dove però le loro proprietà erano ormai state confiscate. Oggi la popolazione italiana in Crimea ammonta a 300 persone, residenti soprattutto a Kerc. Negli anni quei sopravvissuti hanno cercato in più di un’occasione di far sentire la loro voce, per raccontare la loro tragedia e per vedere riconosciuta la propria italianità. Appelli colpevolmente inascoltati, lasciati cadere nel dimenticatoio, che hanno trovato un primo riconoscimento solo da alcuni anni.