Strage nella Moschea, adesso non lasciamo solo Al Sisi
24 Novembre 2017
Sono più di 180 le vittime dell’attacco in Sinai, in Egitto, dove centinaia di persone sono rimaste ferite in un attentato dentro una moschea nel nord del Sinai. L’attacco è avvenuto a Bir al-Abed, a ovest della città di Arish, quando alcuni uomini armati non identificati, che secondo le autorità farebbero parte di gruppi del fondamentalismo islamico, hanno lanciato una bomba contro la moschea al-Rawdah per poi aprire il fuoco contro i fedeli raccolti in preghiera. Il presidente egiziano al-Sisi ha deciso di tenere una riunione di emergenza del governo, che a sua volta ha proclamato 3 giorni di lutto nazionale. Al momento, non ci sono rivendicazioni sull’attacco.
Un prima considerazione più politica, però, possiamo farla. Il presidente Al Sisi, ex generale salito al potere dopo le fallimentari primavere arabe obamiane, e dopo che il Paese era finito nelle mani dei Fratelli Musulmani, è diventato il bersaglio preferito di frange del terrorismo islamico e di chi, orfano degli obamiami, lo considera una specie di despota, emblema di una dittatura militare in uno dei più grandi e popolosi Paesi arabi. Ma l’isolamento internazionale, che si è poi, con il tempo (e la vittoria di Trump), stemperato, rischia solo di indebolire e destabilizzare di nuovo l’Egitto. L’Italia per bocca del ministro degli Esteri Alfano ora esprime “solidarietà e vicinanza” per l’attacco nella moschea ma ricordiamo che proprio i governi di sinistra di cui Alfano con il suo partito è alleato in Parlamento hanno praticamente bruciato relazioni diplomatiche consolidate da anni con l’Egitto sul caso Regeni, ritirando il nostro ambasciatore al Cairo e solo di recente il ministro Minniti ha inviato in Egitto il nuovo rappresentante italiano. Quando invece, a quanto pare, Al Sisi, che sarà pure quello che è, certo non un modello di statista democratico, resta al momento, in quell’area delicata e turbolenta uno dei pochi argini alla marea islamista.