Strategia americana
11 Gennaio 2007
Nathan Sharansky, il 58enne ex dissidente russo che quando uscì dalle carceri sovietiche trovò in Israele un destino di ministro e oggi di direttore del Centro Strategico dell’Istituto Shalem, è uno degli eroi preferiti di George Bush. E la correzione di linea annunciata dal presidente americano ieri è in qualche modo una correzione della linea Sharansky. Fu Bush stesso a spiegare che aveva tratto la sua ispirazione sulla democratizzazione del Medio Oriente dal libro di Sharansky In difesa della democrazia. Il 16 dicembre scorso, proprio nei giorni in cui la questione irachena era al centro della polemica politica americana, Bush ha conferito a Sharansky la Medaglia del Presidente, un’altissima onorificenza per chi si distingua nel campo della lotta per la libertà e la democrazia. «Mia figlia Rachel, che è venuta con me alla Casa Bianca – ci racconta Sharansky nel suo nuovo ufficio a Gerusalemme – mi ha detto che è rimasta colpita dall’atmosfera di sincerità, di totale mancanza di quel cinismo politico per cui i premi vengono conferiti a seconda della convenienza politica. Il premio conferito a me, alla mia storia e alla mia teoria, era evidentemente parte della sua battaglia per costruire una nazione».
Il presidente Bush ha parlato dei suoi errori in Irak e poi subito ha annunciato l’invio di migliaia di soldati. Non si sente confermato nelle sue teorie a parole e poi sconfessato dal clima generale di fallimento?
«Complessivamente credo che il presidente abbia riconfermato la convinzione che un mondo sicuro può essere garantito solo dalla democrazia. Bush conferma la sua fiducia nel potere della libertà. Quando parla di errori, non c’è un fallimento concettuale: la democrazia resta lo scopo centrale e l’esperienza cambia le modalità. Occorre controllare il territorio, ma altrettanto importante è che chieda con puntigliosa determinazione alla leadership irachena di impegnarsi. La suddivisione delle responsabilità dona dignità all’interlocutore iracheno».
Non le sembra che l’idea di vedere vincere la democrazia sia in Irak sia tra i palestinesi sia fallita?
«Io ho criticato sin dal primo momento le elezioni fatte così, il fideismo con cui sono state considerate. Il voto ha un senso solo quando una società ha sviluppato istanze di libertà, quando il tribalismo e il fondamentalismo non determinano il gioco. Nei Paesi dove vince la paura, la gente ragiona col “pensiero doppio”. Ricordo che subito prima della guerra, la Cnn intervistò una donna irachena che disse: “Darò volentieri tutti i miei figli per Saddam”. E il giornalista commentò: “È difficile capire questa mentalità, ma questo è il sentire popolare”. La verità la sappiamo: non ci fu la minima resistenza all’ingresso delle truppe Usa e la gente andò a votare con entusiasmo. Quella donna aveva mentito per paura».
E allora perché questo desiderio di democrazia non ha prevalso?
«Perché, ed è lo stesso errore che facciamo noi con i palestinesi, è mancato il profondo lavoro di promozione di una leadership che desse alla gente speranza, sicurezza. Non bastava, come hanno fatto gli americani, contare all’inizio su un gruppo secolare sostanzialmente sciita, bisognava subito cogliere il buono da sciiti, sunniti, curdi, e mettersi in relazione con i religiosi di ogni parte. I leader patriottici, quale che sia la loro appartenenza, sono stati trascurati, e si è creato così lo spazio per l’ingresso della fronda terrorista iraniana».
Che oggi potrebbe essere favorita dal fatto che Saddam Hussein, sunnita, è stato giustiziato.
«Questo, se la leadership sciita diventa un fantoccio dell’Iran, e quella sunnita dell’Arabia Saudita. La presenza iraniana è diventata letale, e io sono d’accordo con Bush che ritiene l’Iran e la Siria un asse malefico di cui prendersi cura».
Un attimo: lei che è un campione dei diritti umani, non si è scandalizzato per l’esecuzione di Saddam?
«È certo preferibile che la pena di morte non esista, ma bisogna riconoscere come positivo che il processo sia stato gestito in una logica e secondo la legge irachena, che uno dei dittatori più feroci abbia trovato in seno al suo stesso popolo il giudizio inappellabile che l’ha condannato. Io sono fiero del fatto che Israele una volta sola abbia condannato a morte un suo prigioniero, ed era Adolf Eichmann, colpevole di genocidio. L’uomo non si deve sostituire a Dio nemmeno nel perdonare crimini troppo grandi».
Ma il rischio non è quello di fare di Saddam un eroe?
«Quando le bombe umane facevano centinaia di morti alla settimana, non rispondevamo ad Arafat per questa stessa paura, quella di farne un eroe. Non è andata così. Quando è morto, l’unico che l’ha commemorato come tale, è stato Chirac. I suoi, hanno subito cominciato la lotta interna senza guardarsi indietro».
Gaza fu consegnata nell’illusione di promuovere la democrazia, e invece ha promosso la vittoria di Hamas, che si è potuto vantare di aver cacciato gli ebrei col terrorismo.
«Ma anche di essere onesto di fronte alla corruzione del Fatah. Tuttavia, la sua proposizione di onestà, non aveva un carattere civile ma religioso. Hamas propone il fondamentalismo islamico, e dunque la Sharia. Non dona ai suoi una prospettiva di pace, ma di furia integralista. È il paradiso quello che promettono e quindi sono tanto più pericolosi in questa guerra, che vede implicato l’Iran, che in quella a suo tempo con l’Urss: essa odiava l’Occidente, ma voleva realizzare il paradiso in questo mondo, non in quello a venire».
E Abu Mazen? È un candidato per lo sviluppo democratico e quindi per la pace?
«Non è un candidato per la pace, perché non ha mai dato prova ai suoi di gestire programmi, finanze, cultura, lotta al terrorismo, in maniera da favorire il suo popolo. Ha mai promesso di smantellare i campi profughi? Ha parlato di libera economia? Fuori di qui, per esempio a Madrid, si cerca di costruire in laboratorio un bambino che invece deve nascere nelle leadership locali. Abu Mazen rappresenta solo il desiderio dell’Occidente di porre fine a questa storia».
La situazione mediorientale si è molto complicata, l’instabilità è aumentata con la discesa in campo di Hezbollah, di Hamas, dei siriani e soprattutto degli iraniani. Forse il Medio Oriente non ha voglia di democrazia?
«Ogni uomo è fatto per una vita fuori della paura, e quindi nella libertà. Magari non ama l’Occidente, ma ama la vita normale. Le forme in cui realizza questi scopi possono essere variegate, ma l’unica strada giusta resta quella intrapresa da Bush. Non si deve discendere dal cielo con la democrazia, ma costruirla dal basso con l’aiuto e la pazienza, e intanto combattere senza tregua il terrore».
da Il Giornale