Stravaganze esotiche di uomini e donne aggrappati ai loro sogni
10 Maggio 2009
Di immigrati filippini è piena l’Italia, eppure un romanzo proveniente dall’arcipelago asiatico è una vera stravaganza esotica per il nostro mercato editoriale. Il tentativo è stato fatto dalla milanese Isbn che ha scelto di tradurre un’opera di Jose Dalisay, uno scrittore che si è trasformato in vincitore seriale del National Book Award decretato dal Manila Critics Circle. Il suo “Soledad” è anche un prontuario per scoprire le pulsazioni della società filippina contemporanea.
Protagonista dell’incipit è una bara che viaggia nella stiva di un aereo in volo da Jeddah, in Arabia Saudita, a Manila. Il cadavere della donna annegata contenuto tra le assi inchiodate è, secondo una sbadigliante indagine delle autorità saudite, quello di Aurora V. Cabahug, babysitter filippina in servizio nella casa di un principe arabo. Un telegramma con la brutta notizia della dipartita di Aurora in terra straniera raggiunge Paez, cittadina di origine della ragazza. Ma il poliziotto che riceve il compito di rintracciare i parenti di Aurora per il recupero della salma sa che Aurora V. Cabahug in realtà è viva e vispa. Vispa al punto che di mestiere fa la cantante e l’intrattenitrice in uno sgangherato night club dove domina il karaoke e qualche malmesso businessman coreano svuota bottiglie pagando, insieme con i drinks, anche la possibilità di cantare tenendo per mano una ragazza.
Il quiproquò ha una spiegazione semplicissima: la cantante, per problemi con il passaporto, aveva “prestato” la sua identità alla sorella Soledad, che effettivamente lavorava in Arabia Saudita. La morte di Soledad riapre fuori tempo massimo la riconsiderazione delle asimmetrie nei rapporti tra sorelle. E Aurora ci rimugina: “Soli era stata piuttosto una domestica che una sorella per lei. Ed era difficile sentire la mancanza di qualcuno che era come una macchia minuscola su un muro bianco”. Ma a margine delle riflessioni del senno di poi, l’intreccio si complica quando il furgone su cui è caricata la bara viene rubato da un ladruncolo con la fissa della divisa immacolata dei marinai americani. La storia principale, inzuppata di caldi acquazzoni e del languore sudaticcio della provincia filippina, si divide in mille rivoli non appena appare un nuovo personaggio.
Il risultato è l’affresco a puzzle di un Paese sfilacciato, in cui molti rapporti familiari sono guastati dall’emigrazione e tutte le esistenze sono smangiate dal desiderio di altrove. Una fuga che assume le dimensioni di una vera diaspora e conduce, specie in alcune destinazioni di arrivo, a esperienze semischiavili. E Dalisay, con una scrittura tropicale quanto a dettagli, racconta l’elastico che viene a tendersi tra filippini rimasti in patria e compatrioti emigrati, ed espone le viscere di uomini e donne aggrappati ai loro sogni, con il ronzio di fondo dei ventilatori e il suono di “quelle canzoncine coreane tutte stridule” che esce dai locali di karaoke.
Jose Dalisay, “Soledad”, Isbn, trad. Clara Nubile, pagine 196, euro 19