Stringere la mano ad Ahmadinejad? La dottrina Obama è solo una gaffe

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Stringere la mano ad Ahmadinejad? La dottrina Obama è solo una gaffe

28 Maggio 2008

Quando la Camera dei Rappresentanti scende in campo approvando con 324 voti a 84 un’azione legale contro l’OPEC in seguito al rialzo della benzina a 4 dollari, significa che il dibattito pre-elettorale ha raggiunto livelli surreali. Altro segnale indiscutibile di ciò è quando un candidato presidenziale fa una gaffe e poi, realizzando che è cosa troppo bassa il fare un passo indietro senza subire umiliazioni, decide di porre quella stessa gaffe al centro della propria dottrina di politica estera. Prima del confronto in casa democratica lo scorso 23 luglio Barack Obama non aveva mai accennato alla possibilità di un incontro – senza precondizioni – con Mahmoud Ahmadinejad, Bashar al-Assad, Hugo Chavez, Kim Jong Il o i fratelli Castro. Tuttavia nel dibattito del 23 luglio ha detto esattamente questo. Preso alla sprovvista, ha dato il suo assenso ai negoziati e arricchito ulteriormente il discorso, dichiarando che il rifiuto dell’amministrazione Bush nel trattare con questa gente non è soltanto “ridicolo” ma una “disgrazia”.  

Da qui non poteva certo tornare indietro, e così ha ingranato la quinta. Ciò che era iniziato con una gaffe è divenuto il perno della sua politica estera, assumendo la forma di una vera e propria dottrina. Ciononostante, si tratta sempre della stessa idea malauguratamente espressa quel giorno, e cioè di un’assurdità. 

Un Presidente dovrebbe incontrare i suoi nemici? In alcune occasioni, certo; ma solo a patto che alcuni obiettivi minimi – le precondizioni, appunto – siano stati raggiunti. Il comunicato di Shangai era già stato in gran parte scritto molto prima che Nixon mettesse piede in Cina; ma Obama crede che il viaggio di Nixon in Cina confermi la bontà della sua proposta di partire per un tour internazionale dei tiranni nel primo anno della sua eventuale presidenza. 

Il più delle volte non si tratta con i leader nemici perché non c’è nulla su cui trattare. Obama crede forse che la Corea del Nord, l’Iran, la Siria, la Cina e il Venezuela non siano sufficientemente al corrente dei requisiti minimi per negoziare con l’America e per migliorare i rapporti diplomatici? Esistono sempre canali informali ed intermediari attraverso i quali mantenere contatti. L’Iran, ad esempio, è impegnato da cinque anni in un dialogo con i nostri più stretti alleati europei e con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA); per non parlare delle centinaia di comunicati ufficiali rilasciati dagli Stati Uniti che spiegano nei dettagli quali esattamente sarebbero le concessioni in cambio della sospensione dell’arricchimento dell’uranio. Obama vuole far credere di essere il solo favorevole a questo tipo di engagement con gli iraniani, mentre sono i cowboys repubblicani ad opporsi. Un’altra assurdità: nessuno mette in dubbio la necessità di mantenere aperti i canali di contatto. Il problema tutt’al più riguarda la stupidità di elevare gli Stati canaglia e i loro tiranni al rango di interlocutori, ridurne l’isolamento e aumentare il loro potere concedendogli d’incontrare senza condizioni il presidente dell’unica superpotenza mondiale. 

Obama ha parlato di Franklin Roosevelt e di Harry Truman come di presidenti disposti ad incontrare i loro nemici. Ma non conosce per niente la storia? Né Roosevelt né Truman ebbero mai colloqui con i leader delle potenze dell’Asse. Credo che Obama in realtà si riferisse alle foto che ritraggono Roosevelt e Stalin a Yalta, e Truman e Stalin a Potsdam. Ma ha considerato che in quel momento Stalin era nostro alleato in guerra? In seguito, durante la guerra fredda, Truman non s’incontrò mai né con Stalin, né con Mao, né con Kim Il Sung. Truman non era uno sciocco. Obama cita anche l’incontro di Kennedy con Nikita Khrushchev come un altro esempio che intende emulare. Davvero? Il viaggio a Vienna di un giovane presidente alle prime armi e senza esperienza fu un disastro completo; diede a Khrushchev la forza di incalzare Kennedy sulla questione di Berlino e poi su quella di Cuba, portando alla ben nota crisi dei missili. È questo l’esempio che Obama vuole seguire? 

Un incontro con Ahmadinejad non solo rafforzerebbe la posizione del presidente iraniano conferendogli maggiore credibilità in patria, ma allenterebbe all’istante l’isolamento dei mullah, spingendo altri leader nel mondo a seguire l’esempio di Obama. In poco tempo avremmo un mare di accordi commerciali, contratti petroliferi, relazioni diplomatiche che minerebbero alla base le stesse sanzioni e l’isolamento ai quali Obama afferma di voler ricorrere contro l’Iran. Come ogni diplomatico esperto sa bene, il problema di un summit è che si creano aspettative enormi in merito ai risultati; ed i risultati si raggiungono solo sulla base di concessioni reciproche. Per questo motivo le condizioni e le concessioni vengono decise prima, non al momento dell’incontro. Quali concessioni Obama immagina che Ahmadinejad potrà fare sul programma nucleare iraniano? E quali altre agevolazioni Obama è disposto a concedere? Abbandonare il Libano? Riconoscere Hamas? O forse rimpicciolire il territorio di Israele? 

Dopo essersi coperto di ridicolo con la promessa di negoziati a livello presidenziale senza pre-condizioni – ed avendo poi complicato il problema facendo della propria gaffe un principio politico -, Obama si trova ora a dover costantemente chiarire la propria posizione. Domenica ha affermato a Pendleton, Oregon, che rispetto all’Unione Sovietica l’Iran e gli altri nemici degli Stati Uniti non rappresentano “una seria minaccia per noi” (al contrario, la Repubblica Islamica d’Iran ha tratti pericolosamente apocalittici. La Russia sovietica non era così). Il giorno dopo a Billings, Montana, invece ha detto: “Da anni affermo che la minaccia iraniana è di inaudita gravità”. E questo è accaduto il giorno dopo, badate bene. Queste circonvoluzioni retoriche hanno fatto qualcosa di più che creare confusione intellettuale: hanno dato vita a un nuovo fenomeno politico, la gaffe metastatica. Da una se ne crea un’altra, poi un’altra, un’altra ancora… 

© Washington Post

Traduzione Alia K. Nardini