Studiare con Internet fa rincretinire?

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Studiare con Internet fa rincretinire?

04 Luglio 2008

Perdita di concentrazione, scarso riscontro delle fonti, un indottrinamento che può rivelarsi subdolo. Sono i danni più evidenti per gli studenti drogati di Internet. Mentre “Google Scholar” offre un nuovo servizio per la redazione di tesi universitarie, chiediamoci qual è il modello di conoscenza dei motori di ricerca.

È una conoscenza piatta e indifferenziata. Su Internet nessuna pagina è più importante delle altre, il valore delle pagine non sta più nel loro contenuto ma nel numero di volte in cui vengono cliccate. Raro, se non impossibile, che gli studenti leggano testi lunghi e complessi in un’unica seduta. Hanno preso la (bruttissima) abitudine di saltellare da una pagina all’altra, dedicando una manciata di secondi a ognuna delle fonti, senza tornare indietro per verificare ciò che hanno letto. L’ipertesto si rivela un incubo in cui perdersi, come la reggia dalle mille stanze di “Kubla Khan”, il poemetto di Coleridge che ha prefigurato Internet.

Gli studenti se ne sono sempre fregati di imparare le date storiche a memoria, tanto più che oggi c’è Google e possono ricordarle così (almeno finché sono connessi). La cultura del “Search & Keyword” è perfettamente in linea con il facilismo che ha distrutto il sistema dell’istruzione occidentale in questo decennio. C’è la maturità? Tranquilli, le tracce sono a disposizione on line la notte prima degli esami. Il rituale Venditti è stato spodestato da Internet e, invece di una canzoncina rasserenante, i maturandi preferiscono incollarsi nervosamente al video fino all’alba.

La professoressa inglese Tara Brabazon ha deciso di vietare Google ai suoi studenti. L’eccentrica richiesta di questa combattiva quarantenne ha un intento provocatorio più che punitivo. È una sfida a recuperare il valore della ricerca e dell’analisi: “Fornisco ai miei studenti una lista di libri su cui lavorare  e mi aspetto che siano quelle le fonti che verranno citate nei loro scritti. Voglio che si mettano a sedere e leggano, che imparino l’esperienza della pagina scritta e stampata esattamente come stanno facendo con quella dei pixel e della cultura digitale”.

Tara è in trincea nella difesa delle biblioteche pubbliche e delle librerie scolastiche: “sono il cranio della cultura – dice in un momento di ispirazione – i librai sono i custodi della conoscenza”. Molte librerie stanno soffrendo la concorrenza di Internet, chiudono o sono costrette a licenziare. L’impressione è che i ‘decisori’ pubblici abbiano scelto il web come un (economico) sostituto dei libri. Nella biblioteca virtuale però i librai in carne e ossa sembrano ridondanti, ecco perché la prof chiede una profonda “ristrutturazione” del sistema librario inglese.

Eliminare completamente Google dalla vita di un nativo digitale sarebbe un inferno. La censura aumenta l’attrazione verso l’oggetto del divieto e ne legittima l’autorità. “Banning is just silly”, bannare è semplicemente stupido, dicono i blogger pro-web. Se gli studenti non riescono a produrre un lavoro di qualità dobbiamo insegnargli come riuscirci, non con quali mezzi farlo. Non basta avere familiarità con Internet se poi manca la capacità di analisi e per conquistarla occorre lavorare sodo, professori e studenti.

C’è soprattutto un deficit nell’interpretazione delle fonti digitali. Perché Google indicizza le sue informazioni in un certo modo? Come mai se usiamo come parola-chiave “stupido” appare immancabilmente il faccione del presidente Bush? E se mettessimo radicalmente in gioco l’ideologia della rete? La sua (presunta) mancanza di gerarchie, la sua neutralità che spesso nasconde un preciso allineamento,  l’idea che ogni “filtro” o strumento di organizzazione del web sia un tradimento dei principi che hanno creato la Rete

Proviamo a usare Wikipedia in modo critico. Siamo di fronte alla prima enciclopedia soggettiva della storia, in cui ognuno di noi può scrivere quello che gli pare senza avere alcun titolo per farlo. Il volontarismo wikipediano è confusionario e approssimativo, lo stile delle voci ammassate peggiora con l’andar del tempo; il portale incoraggia la pubblicazione di testi lunghi, verbosi, in cui la quantità prevale sulla qualità delle informazioni. Le notizie prevalgono sui fatti, i commentatori improvvisati su tutto il resto.

Chissà quanti studenti saprebbero riconoscere l’ideologia Wikiana. È una visione liberal che si diffonde a livello globale trincerandosi dietro il mito del politicamente corretto. Tutto questo ha un prezzo in termini di studio e decifrazione della realtà.  

Supponiamo di essere un diciottenne che deve svolgere un compito di italiano sull’ateismo. Su Wikipedia scopre alcune cifre sulla diffusione del fenomeno. Fonti britanniche dei primi anni novanta parlano di 1 miliardo e 154 milioni di persone al mondo che si dichiarano atei o agnostici. Secondo la “World Christian Enciclopedia”, nel 2000 gli agnostici erano 1 miliardo e 71 milioni, gli atei 262 milioni. Grosse cifre sbandierate con superlativa freddezza e in modo un po’ contraddittorio (quanto sono atei gli agnostici?).

Per interpretare queste informazioni servirebbe un mentore, una voce  che non sia gracchiante come la macchina, insomma c’è bisogno di un insegnante che spinga lo studente a proseguire nella sua ricerca e a confrontarsi con altri punti di vista.

Leggiamo la voce “ateismo” redatta da Conservapedia, l’enciclopedia on line scritta da un’angolazione conservatrice. D’accordo con il teologo Wolfhart Pannenberg veniamo a sapere che “l’ateismo come posizione teoretica è in declino tra le visioni del mondo” (anche i dati di Wikipedia indicavano un decremento ma l’affermazione di Pannenberg è più diretta quindi più chiara).

Diamo un’occhiata alla biografia di Pannenberg su Wikipedia. Scopriamo che lo studioso di origine polacca per tutta la sua vita ha “difeso la teologia come a una rigorosa disciplina accademica, capace di interagire criticamente con la filosofia, la storia e le scienze naturali”. Ecco un esempio di scrittura normalizzante: tanti bei complimenti a Pannenberg ma neanche un cenno alle sue affermazioni sulla crisi dell’ateismo. Ci sarà un perché?

La voce di Conservapedia sull’ateismo invece è secca, pregnante, verificabile. Il portale cita uno studio scientifico apparso sulla “American Sociological Review” (Edgell, Gerteis, Hartmann, 2006) intitolato “Atheists As ‘Other’: Moral Boundaries and Cultural Membership in American Society”. Il 39,6% degli americani ha dichiarato che gli atei sono “un gruppo che non coincide con la mia visione della società”. Il 47.6% disapproverebbe l’eventuale decisione del proprio figlio di sposare un ateo. Riflettere in classe su dati come questi sarebbe un modo provocatorio per risvegliare la coscienza critica degli studenti.

Dubitare fa rima con studiare. Mettersi in gioco, crescere, cambiare. Educare all’interpretazione è il compito primario della scuola nell’era della post-informazione.