Su Bankitalia il Cav. non può farsi imbrigliare dai veti incrociati

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Su Bankitalia il Cav. non può farsi imbrigliare dai veti incrociati

29 Settembre 2011

Servirà ancora tempo. La partita su Bankitalia si sta avvitando su se stessa e rischia di diventare una questione più politica (e personale) che istituzionale. E tutta interna alla maggioranza, che è poi il riflesso della contrapposizione (altro che tregua) tra Berlusconi e Tremonti.

La storia delle scalate ai vertici di palazzo Koch è contrassegnata da competizioni interne ed esterne, con candidature gradite e non, con cordate politiche e non pro o contro e, alla fine, con vincitori e vinti. Il fatto in più, è che sulla successione a Draghi si sia incastrato un braccio di ferro governativo che vede premier e ministro del Tesoro posizionati agli opposti sui due candidati in lizza: Fabrizio Saccomanni, numero due di Bankitalia e Vittorio Grilli, direttore generale di via XX Settembre.

Il rischio è che tutto ciò determini nuove tensioni nella maggioranza. Ieri a Palazzo Grazioli si è deciso di prendere tempo perché come ha detto il Cav. occorre sciogliere il nodo di Bankitalia “al più presto” ma prima bisogna trovare “un accordo politico”. E se l’intesa non dovesse uscire fuori dal prossimo vertice di maggioranza, non è escluso che la sintesi verrà rimandata a un Consiglio dei ministri ad hoc dove potrebbe essere messa ai voti una rosa di candidature nella quale oltre a Saccomanni (dato in pole position) e Grilli entrano anche Ignazio Visco, vicedirettore generale di Bankitalia e Lorenzo Bini Smaghi in uscita dal board della Bce.

Ma quali sono le posizioni in campo? Il premier è orientato sul nome di Saccomanni, gradito a Palazzo Koch, sostenuto da Mario Draghi e auspicato dal Colle (col quale il Cav. vuole mantenere buoni rapporti), mentre Tremonti ha posto paletti ben fermi sulla candidatura di Vittorio Grilli trovando in Bossi un alleato politico forte. La mossa del ministro del Tesoro e la sua risolutezza nel condurla fino in fondo, rappresenta una grana non da poco per Berlusconi. Per vari motivi: anzitutto perché su una carica così importante in una fase tanto delicata per il paese, l’idea di una contrapposizione tra il premier e il ministro più ‘potente’ dell’esecutivo (Tesoro, Finanze, Bilancio, Partecipazioni statali) può indebolire l’immagine dell’esecutivo soprattutto sullo scenario internazionale proprio nel momento in cui Draghi si appresta ad assumere la presidenza della Bce e l’Italia è chiamata dall’Europa a impegnarsi sui provvedimenti per lo sviluppo.

Molti nel centrodestra – più o meno malignamente – leggono nell’ostinazione di Tremonti l’effetto di rapporti non buoni con l’ex governatore di Bankitalia e per questo sospettano l’intenzione di sbarrare la corsa per Palazzo Koch ad un ‘suo’ uomo. C’è dell’altro: il fatto di aver trovato in Bossi un alleato convinto, in qualche modo sta politicizzando la candidatura di Grilli, da ieri considerato l’uomo della Lega e del ministro.

Su questo si innesta il rischio più grande, perché in molti settori della maggioranza – compresa l’ala movimentista del Carroccio – sta crescendo l’insofferenza nei confronti del ‘metodo Tremonti’. Prima con la manovra di ‘lacrime e sangue’, poi con l’affaire Milanese e il voto in Aula sull’arresto, quindi col Cdm nel quale, assente Tremonti, i ministri sono stati chiamati a ratificare un dossier già ‘chiuso’ e preparato da via XX Settembre. Oggi con quella che viene percepita come “l’ennesima imposizione”, il rischio concreto è che tutto ciò che riguardi il Prof. di Sondrio aumenti il livello di tensione nella maggioranza.

Non solo: l’ondeggiare del Cav. tra il redde rationem con Tremonti e la via della mediazione e per certi aspetti del compromesso visto che la sua idea sulla ‘cabina di regia’ per ora è in stand by, sostituita dal richiamo ad una maggiore collegialità nelle scelte di politica economica, viene vissuto con un certo disorientamento nei ranghi pidiellini. Anche perché – si ragiona ai piani alti di via dell’Umiltà – la via attendista potrebbe favorire seppur indirettamente, il consolidamento della fronda anti-tremontiana dentro il partito, ormai traversale. In altre parole, una corrente strutturata.

Le parole del sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto, tra i più critici sul ‘metodo Tremonti’, sono chiare: “Trovo sconcertante trattare la vicenda Bankitalia come fosse una vicenda di calciomercato. Grilli e Saccomanni, sono entrambi professionisti di altissimo livello. Utilizzare la loro professionalità come una clava per affermare una prevalenza politica o personale non è saggio né utile al Paese. Chi andrà a succedere a Draghi, dovrà avere l’autorevolezza e la forza di rappresentare l’Italia in un contesto ed in un consesso molto difficile. Facendo così, rischiamo di rendere invece più debole chiunque sia scelto. Tanto più se il risultato sarà quello di far prevalere, tra i due fuoriclasse qualche terzo tirato fuori dal cilindro all’ultimo minuto, magari anche meno autorevole”.

I vertici di questi giorni a Palazzo Grazioli, con o senza Tremonti, non sono riusciti a sbloccare l’impasse. Di qui l’ipotesi di portare in un Cdm ad hoc una rosa di nomi da sottoporre al voto. Con quale obiettivo? Sostenere la candidatura di Saccomanni puntando su una maggioranza numerica di consensi e contando sul fatto che il titolare di via XX Settembre non può farsi mettere in minoranza dal voto e finire ‘sfiduciato’ sul suo candidato. L’eventuale passaggio in Consiglio dei ministri – considerato l’estrema ratio – sarà preceduto la prossima settimana da un nuovo summit di maggioranza per trovare una soluzione il più possibile condivisa. Un tentativo, insomma, prima di andare alla conta.

La procedura prevista dalla legge sulla nomina del nuovo governatore stabilisce un iter complesso del quale, ovviamente si deve tenere conto: l’indicazione del governo viene sottoposta al Consiglio Superiore della banca per la verifica dei requisiti e successivamente passa alla ratifica del Cdm per poi approdare al Colle. Napolitano ha già fatto capire che non farà il semplice notaio e ciò significa che eserciterà fino in fondo le sue prerogative. Tradotto: se lo riterrà, potrebbe anche non firmare la nomina.

C’è poi la possibilità, prevista anch’essa dalla prassi, che il Consiglio Superiore di Bankitalia qualora non ravvisi i requisiti necessari sui quali pronunciarsi, possa rigettare l’indicazione del governo e a quel punto, come nel caso di un no del Quirinale, si dovrebbe ricominciare tutto da capo. Un doppio rischio che Berlusconi non può e non vuole correre; per questo sta giocando la carta dell’accordo politico prima dell’indicazione che Palazzo Chigi dovrà dare.

In tutto ciò, qual è il gioco di Bossi? In Transatlantico molti deputati pidiellini ritengono che questo sia un modo “non nuovo, per rivendicare il proprio peso negoziale dentro la coalizione”. Della serie: puntare su altri capitoli che gli stanno a cuore, dal Senato federale (ddl costituzionale sulla forma-Stato) ad alcuni provvedimenti del pacchetto-sviluppo, magari rivedendo la motivazione con la quale sta sponsorizzando la candidatura tremontiana: ‘Grilli va bene perché è di Milano’.

Come si vede c’è molta carne al fuoco, dentro e intorno a una partita che dovrà essere decisa nel minor tempo possibile, perché un fatto è certo: più va avanti così e più aumentano le probabilità che i nodi concatenati – politici e non – diventino inestricabili.

Per ora, Berlusconi sceglie di prendere tempo, convinto da un lato che la sua capacità di mediazione alla fine porti al risultato auspicato, dall’altro che la via concertativa sollecitata dal Colle sia quella giusta per districare la matassa, senza strappi. Legittimo e comprensibile, ma è altrettanto vero che in una situazione così incartata dovrebbe essere lui a condurre le danze, ad assumere un’iniziativa e a decidere. Punto. Finora, non sembra sia così.