Su Eluana gli opposti fondamentalismi non fanno i conti con la realtà

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Su Eluana gli opposti fondamentalismi non fanno i conti con la realtà

25 Luglio 2008

Se appena un anno fa, quando a guidare il Paese c’era l’Unione con le sue drammatiche contraddizioni, una palla di vetro avesse mostrato quel che sta accadendo in Parlamento attorno al caso Englaro, sarebbe stato assai difficile dar credito al vaticinio, tanto lontana è la realtà dei fatti da ogni più sfrenata fantasia. Non tanto a causa degli accenti che il dibattito sulla fine della vita sta assumendo; se ci si limita ad una lettura superficiale delle note diramate alle agenzie di stampa dalle diverse "anime" del PdL, non si noterà infatti nulla di strano: i radicali fanno i radicali chiedendo a gran voce una legge sul testamento biologico, e i cattolici fondamentalisti fanno i cattolici fondamentalisti respingendo a priori anche la possibilità di un confronto sul tema.

Come se – sia detto per entrambe le parti – la sentenza della Cassazione sulla povera Eluana non fosse mai stata pronunciata. Come se il conseguente decreto della Corte d’Appello di Milano non avesse cambiato radicalmente le carte in tavola. Come se con la realtà non si dovesse mai fare i conti. Passando dal piano della lettura superficiale a quello dei dati concreti, infatti, si comprende agevolmente che, per una sorta di beffarda eterogenesi dei fini, i radicali si ritrovano a combattere contro chi, sommessamente, vorrebbe che su questa materia il legislatore si assumesse una volte per tutte le proprie responsabilità sottraendo la vita e la morte all’arbitrio di un giudice non legittimato da alcuna sovranità popolare; mentre, se si fosse dato retta ai cattolici "duri e puri", probabilmente Eluana Englaro sarebbe morta da un pezzo, e si sarebbe creato un pesantissimo precedente, per smentire il quale non vi sarebbe altra soluzione che confidare in altre, future e diverse sentenze.

C’è un dato al quale entrambe le contrapposte "fazioni" sembrano non attribuire la dovuta rilevanza. E cioè che il dibattito sulla fine della vita e sulle dichiarazioni anticipate di volontà che in questi giorni occupa le pagine dei giornali non ha nulla a che vedere con le discussioni sul testamento biologico che hanno attraversato la passata legislatura. In mezzo c’è la sentenza Englaro, con la quale la Corte di Cassazione ha stabilito che dagli orientamenti e dagli stili di vita di una persona anche giovanissima si possa determinare ex post la sua volontà; che idratazione e alimentazione sono da considerarsi un trattamento sanitario; che, dunque, in assenza del consenso informato dar da mangiare e da bere artificialmente ad un malato da parte del medico sarebbe un illecito. Affermazioni che a noi appaiono quantomeno avventate, ma che qualcuno invece può legittimamente condividere. Esse però, in ogni caso, intervengono esattamente sul terreno di confronto sul quale in Parlamento, presso la XII commissione del Senato, le posizioni in campo si dividono. Un terreno che la magistratura non ha il potere di invadere, come ha ribadito nei giorni scorsi lo stesso premier Berlusconi.

E’ per questa ragione che in Senato, a seguito di una mozione di Francesco Cossiga e Gaetano Quagliariello, è stato avviato l’iter che martedì condurrà l’Aula a votare un conflitto d’attribuzione contro la Suprema Corte per rivendicare la funzione legislativa del Parlamento. Perché, è il ragionamento dei promotori, nessuno nega che l’autorità giudiziaria di fronte ad un’istanza di un cittadino – nella fattispecie il papà di Eluana, Beppino Englaro – dovesse in qualche modo pronunciarsi. Ma tra un equilibrato rimando alle comuni e migliori pratiche mediche e l’elefantiaco pronunciamento col quale si è di fatto creata una sorta di indebita "norma autoapplicativa" c’è di mezzo l’oceano. C’è di mezzo la legittimità che deriva dalla sovranità popolare di cui, a differenza di quanto accade spesso nei Paesi di common law, i magistrati italiani non sono dotati. C’è di mezzo la divisione dei poteri, che la nostra Costituzione sancisce assegnando inequivocabilmente all’assemblea parlamentare il diritto di approvare le leggi. C’è di mezzo, e qui veniamo al punto, la necessità che il confine tra la vita e la morte venga sottratto all’arbitrio dell’autorità giudiziaria, pena l’avvento di un far west giurisprudenziale dagli esiti imprevedibili. Stabilito che le leggi le fa il Parlamento, sarà poi in quella sede che ogni diversa sensibilità e ogni opinione di merito potrà trovare ampio spazio per esprimersi e confrontarsi.

Si tratta di una posizione di buon senso che non solo dovrebbe trascendere ogni divisione tra credenti e non credenti, ma dovrebbe accomunare, a prescindere dalle opinioni politiche e addirittura da ciò che si pensa sull’eutanasia, chiunque abbia a cuore i principi fondanti del nostro stato di diritto. Dovrebbe. Con l’approssimarsi del voto in Senato, invece, mentre nel Pd si moltiplicano le manifestazioni di dissenso rispetto alla posizione ufficiale del partito, contraria all’elevazione del conflitto davanti alla Consulta, nelle file del PdL alla Camera sembrano essersi messi in moto i due riflessi pavloviani opposti ma speculari da cui il nostro ragionamento ha preso le mosse. 

Da una parte i riformatori liberali di Benedetto Della Vedova, che nel sollecitare una legislazione in materia difendono i pronunciamenti giudiziari sul caso Englaro, forse senza rendersi conto che un’assunzione di responsabilità da parte del Parlamento passa necessariamente attraverso la rivendicazione dello spazio che compete al legislatore e che la Corte di Cassazione ha indebitamente invaso. Dall’altra il gruppo ispirato al cattolicesimo radicale, capitanato da Isabella Bertolini, che di una legge sulla fine della vita sembra non voler neanche sentir parlare, come se alla decisione di un Parlamento democraticamente eletto, dove peraltro è maggioranza uno schieramento che all’eutanasia ha detto chiaramente "no" già in sede di programma elettorale, fosse preferibile un florilegio di sentenze giudiziarie, magari contraddittorie tra di loro. Una posizione, quest’ultima, che dopo lo spartiacque della sentenza Englaro neanche in ampi strati della gerarchia ecclesiastica viene considerata più sostenibile.