Su Gerusalemme e sull’immortalità del popolo eletto

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Su Gerusalemme e sull’immortalità del popolo eletto

Su Gerusalemme e sull’immortalità del popolo eletto

04 Novembre 2007

Il 24
maggio ad una cerimonia a Gerusalemme Norman Podhoretz ha ricevuto il Guardian
of Zion Award dal Centro Ingeborg Rennert per gli Studi di Gerusalemme, presso
l’università israeliana di Bar-Ilan. Di seguito il testo del suo discorso.

Trovarmi qui
per il quarantesimo anniversario della riunificazione di Gerusalemme mi riporta
al 1995, quando venni a celebrare il 3000° anniversario della città come
capitale del Regno unificato di Israele, voluto da Re Davide. Durante la
cerimonia inaugurale, alla quale partecipai con la mia figlia israeliana Ruthie
Blum, osservai un relatore dopo l’altro alzarsi e proclamare che Gerusalemme
non sarebbe mai più stata divisa, e che sarebbe rimasta per sempre la capitale
di Israele. Ma invece di rassicurarmi, mi sentivo sempre più a disagio. Dopo
aver ascoltato la terza o la quarta di queste dichiarazioni, mi volsi verso
Ruthie e bofonchiai “Oh-oh, Gerusaleme è perduta”.

La mia
affermazione potrà essere suonata stramba, ma nel profondo -malgrado il cinismo
suscitato così spesso e così giustamente dalle promesse dei politici- avevo
seri motivi per preoccuparmi. Perché persino mentre il Primo Ministro Yitzhak
Rabin dichiarava che “non esiste uno stato di Israele senza Gerusalemme, e non
c’è pace senza una Gerusalemme unita”, il suo governo tollerava silenziosamente
l’attività politica palestinese a Gerusalemme Est. In aggiunta, la maggior
parte del mondo già considerava gli uffici del PLO a Orient House -dove tale
attività aveva luogo- come un futuro stato palestinese con capitale Gerusalemme
Est.

Poi ci fu
Bill Clinton, l’allora Presidente degli Stati Uniti. Clinton sarà pur stato
felice di affermare inequivocabilmente di “riconoscere Gerusalemme come città
non divisa e capitale eterna di Israele”; ciò nonostante, il suo ambasciatore a
Israele, Martin Indyk, si era appena unito a tutti gli altri ambasciatori
europei nel rifiuto a partecipare alla cerimonia inaugurale di Gerusalemme
3000. Era lo stesso Martin Indyk che, come direttore di un think tank di Washington, aveva scritto in precedenza un articolo
chiedendo che l’ambasciata americana venisse spostata da Tel Aviv a
Gerusalemme. Tuttavia in quel momento Indyk stava facendo pressione esattamente
contro quella stessa mossa. Grazie agli esiti vergognosi degli accordi di Oslo,
beneficiò persino della tacita approvazione del governo israeliano in merito.

Fino ad ora,
benedicendo la sorte, le mie apprensioni del 1995 riguardo al futuro di
Gerusalemme non si sono realizzate. In un certo senso, nulla è cambiato da
allora; come in occasione delle celebrazioni del 1995, né l’ambasciatore
americano né i rappresentanti dell’Unione Europea hanno partecipato alla
cerimonia di apertura per il 40° anniversario della riunificazione della città.
Sotto altri aspetti, c’è persino stato un miglioramento: l’Orient House è stata
chiusa, e negli ultimi anni è stato vietato in vari modi all’autorità
palestinese di gestire affari politici strutturati a Gerusalemme Est.

Ciò
nonostante, la verità pura e semplice è che oggi ci sono molte più ragioni di
preoccuparsi per Gerusalemme rispetto al 1995. Nel 1995, malgrado i minacciosi
segnali di pericolo all’orizzonte che apparivano sin troppo ovvi a molti di
noi, solo un numero esiguo di israeliani al di fuori dei confini della sinistra
radicale sembravano disposti a considerare una nuova divisione di Gerusalemme.
In quei giorni, questa era ancora la più rossa delle linee, e nemmeno la
promessa di un trattato di pace avrebbe indotto la grande maggioranza degli
israeliani a superarla. Oggi non è così. Infatti, secondo un recente sondaggio,
il 57 per cento degli ebrei israeliani “sono disposti a fare un qualche tipo di
concessione in città come parte del processo di pace con i palestinesi”.

Una
spiegazione per questa disponibilità è quella fornita dal mio vecchio amico e
storico Walter Laqueur. Nel suo recente libro Dying for Jerusalem, Laqueur ci informa che “la città è già
divisa”, e prosegue appellandosi all’autorità del profeta Isaia per
giustificare l’adozione di un approccio disteso in merito a tale situazione.
Isaia, scrive Laqueur, diceva molte cose meravigliose su
Gerusalemme -che per il bene di Sion non sarebbe rimasto in silenzio, e che al
di fuori di Sion la legge avrebbe trionfato. Ma non diceva che la sua mano
destra avrebbe dimenticato l’astuzia, se il Ministero del Turismo e il
Ministero della Salute non fossero stati in città. E Laqueur
aggiunge che non sta scritto in nessun luogo nella Bibbia ebraica che “la
sovranità su parte della città non può essere condivisa con altri”.

Hillel
Halkin, un noto intellettuale israeliano ed un altro vecchio amico, è
d’accordo. Evidenzia come la maggioranza degli abitanti arabi di Gerusalemme
vivono in zone della città che non erano tradizionalmente ritenute parte
di Gerusalemme. Per cui, quando si parla di una “nuova partizione” di
Gerusalemme, non si tratta affatto del temibile spettro che può apparire a
prima vista.

Esiste anche
una variazione su questa argomentazione, che mi è stata esposta in privato da
un altro intellettuale molto noto che un tempo occupava una posizione di
prestigio nel governo israeliano. Visto che la città era di fatto già divisa al
punto che né lui né alcuno che lui conoscesse si azzardava ad avventurarsi
nella parte est dopo il crepuscolo, perché continuare ad opporsi ad un riconoscimento
legale di tale realtà? (A questo risposi che ci sono quartieri a New York e in
altre città americane dove si potrebbe dire lo stesso, ma ciò non significa che
non debbano restare parte degli Stati Uniti).

Una terza, e
forse la più convincente riflessione tra tutte, è quella demografica. Visto che
i palestinesi residenti a Gerusalemme hanno un tasso di natalità molto più alto
degli ebrei che abitano lì, e dato che così tanti ebrei hanno lasciato la
città, la maggioranza ebraica è costantemente in calo. Oltre a ciò, secondo un
altro sondaggio, più del 78 per cento degli ebrei israeliani non desiderano
vivere a Gerusalemme. Oltre ad essere afflitti dalla penuria di opportunità di
lavoro, alcuni pensano che vi siano già fin troppi palestinesi e, onestamente,
che vi siano anche troppi ebrei –intendendo con questo ebrei haredi. Esiste dunque la possibilità
concreta che gli ebrei diventino in ogni caso una minoranza nella loro
capitale.

Questo è il
motivo per cui un “falco” come il Professor Dan Schueftan dell’Università di
Haifa può unirsi ad un attivista di Peace Now come lo scrittore Amos Oz nel
chiedere una nuova divisione della città. Ciò nonostante, Schueftan -che
definisce Israele “l’ottava meraviglia del mondo”- vorrebbe più distanza
possibile tra ebrei e arabi, mentre Oz -che si attarda ossessivamente sui
supposti peccati degli israeliani verso i palestinesi- sogna un ambasciatore
israeliano in Palestina e un ambasciatore palestinese in Israele che si fanno
spesso visita reciprocamente in ufficio nelle due parti di Gerusalemme, per
bere un caffè e fare due chiacchere amichevolmente. Quest’idea del leone che
giace con l’agnello non è nemmeno presa in considerazione da Schueftan, è
inutile dirlo. Schueftan è favorevole ad una partizione perché, come ha
affermato non molto tempo fa, “Israele senza la parte di Gerusalemme Est
popolata in maggioranza da arabi … è più forte di Israele quando comprende 300
000 arabi [in più]”.

Ora, anche se
so che le proiezioni demografiche spesso si rivelano false, e nonostante creda
che la forza non si misuri solo attraverso la demografia, non nego che i numeri
siano certamente fonte di seria preoccupazione. Ammetto anche apertamente che
non sia possibile fare un confronto tra Gerusalemme e New York, e in ogni caso
tra Gerusalemme e qualsiasi altra città sulla faccia della terra. Per
l’appunto, credo che il Maggiore Uri Lupolianski abbia perfettamente ragione
quando dichiara che “Gerusalemme non solo è parte indivisibile della nazione
ebraica, ma costituisce la base della sua esistenza”. Al contrario, Walter
Laqueur ha assolutamente torto quando cita Isaia, tra tutti i profeti,
nell’argomentare con una certa nonchalance
che Gerusalemme potrebbe essere nuovamente divisa nel corso di futuri negoziati.

Per
comprendere quanto Laqueur sia decisamente fuori strada, è opportuno ricordare
un poco di storia.

Dopo
la morte di Salomone figlio di Davide, il regno unito creato dallo stesso
Davide fu diviso in due: il Regno di Israele al nord la cui capitale divenne
poi Samaria, e il Regno di Giuda al sud con capitale Gerusalemme. Ma nel 722 a.C., dopo circa due
secoli di tormentata esistenza, il regno settentrionale di Israele fu
conquistato dagli assiri e il suo popolo fu disperso nel vento per divenire le
dieci tribù perdute. Vent’anni dopo, nel 701 a.C. l’Assiria governata da Sennacherib
stava per infliggere la stessa sorte al Regno di Giuda, di cui Ezechia era
allora il re.

Avendo
già conquistato gran parte del Regno di Giuda, Sennacherib teneva sotto assedio
Gerusalemme. A questo punto, cosa fece Isaia? Propose ad Ezechia di negoziare
un patto con cui il Ministero del Turismo e della Salute venissero trasferiti da
qualche altra parte e la sovranità della città fosse condivisa con gli assiri?
Certamente no, anzi assicurò a Ezechia che se avesse resistito all’assedio di
Sennacherib, nessun male sarebbe venuto a Gerusalemme, perché Dio non l’avrebbe
permesso.

Tale
convinzione riguardo all’inviolabilità di Gerusalemme era al tempo
profondamente radicata. È comprensibile quanto questa idea fosse sentita se si guarda
a ciò che accadde più di un secolo dopo al profeta Geremia. Poiché quest’ultimo
preannunciava che Nabucodonosor, re di Babilonia, avrebbe distrutto Gerusalemme
se essa avesse usato sollevarsi contro di lui, Geremia fu accusato di
contraddire la promessa fatta da Dio al popolo di Israele e i suoi oppositori
politici chiesero che venisse condannato a morte per blasfemia.

Fu
sempre ai tempi di Geremia, durante il regno di Giosia sovrano di Giuda, che il
libro in seguito noto come Deuteronomio venne ritrovato nel Tempio di Salomone
durante alcuni lavori di ristrutturazione. Sia il re che il popolo dei giudei conoscevano
già molto di quanto era scritto nel libro; tuttavia, vi era contenuto anche
qualcosa di nuovo e sorprendente. Era la proibizione, espressa in termini
quantomai inflessibili, ad offrire sacrifici qualsiasi altare che non fosse
quello del Tempio di Gerusalemme.

La
ragione per cui tutto ciò era sorprendente è che, sin dai tempi di Abramo in avanti,
molti altari erano stati costruiti e dedicati al Dio di Israele in una varietà
di luoghi, e in nessuna delle leggi della Torah come allora conosciute, così
come in nessun oracolo o sermone dei profeti che fino ad allora avevano
parlato, vi era il più remoto indizio che indicasse come potesse essere
sbagliato offrire sacrifici di fronte ad essi. Tuttavia Dio ora intimava la
distruzione di quegli altari e di quei luoghi di culto, dovunque essi fossero
situati ed a prescindere da quanto fossero antichi. Da quel momento in poi, non
ci sarebbero stati sacrifici né celebrazioni delle festività se non a
Gerusalemme. Gerusalemme dunque divenne non solo la capitale del Regno di Giuda,
bensì anche, per così dire, la capitale del giudaismo.

Nel domandarmi
il perché della scelta di una singola città tra tutte quelle appartenenti alla
Terra di Israele, mi trovo inevitabilmente portato a riflettere in un contesto
più ampio e persino più misterioso, riguardante la scelta di un popolo tra
tutte le nazioni del mondo. E nell’interrogarmi in merito alla convinzione che
i figli di Israele e i loro discendenti, che nei secoli successivi verranno
chiamati ebrei, siano il popolo prescelto da Dio, mi trovo a fare affidamento su
di un concetto cristiano piuttosto affascinante: quello che i teologi cristiani
chiamano lo scandalo del particolarismo ebraico.

Esistono
numerose e complesse definizioni di tale concetto. A mio parere esso viene però
spiegato al meglio non in una disquisizione teologica, bensì in una piccola rima
spesso erroneamente attribuita allo scrittore britannico Hilaire Belloc. A dire
il vero, fu scritta negli anni Venti da un giornalista britannico di nome
William Norman Ewer, e dice così: “che strano/che Dio/abbia scelto/gli ebrei”. Dato il fine
tocco di malizia antisemita celato in questi versi, è stato inevitabile che vi
si rispondesse a tono. Tra tutte le repliche, uno sconosciuto autore recita:
“ma non strano/come chi sceglie/un Dio ebreo/ma disprezza gli ebrei”. Un’altra
rima, anch’essa di origini incerte, è più succinta: “non strano/per Dio./I goyim/lo irritano”.

Ewer, tra
l’altro, non solo era antisemita; come emerge da file segreti dell’MI5 ora noti,
era anche un agente sovietico. Fatene ciò che volete, ma resta un fatto peculiare:
nel comporre i suoi versi, l’agente sovietico poteva stare parlando come un
cristiano credente che non aveva altra scelta se non accettare ciò che la Bibbia diceva; e la Bibbia appunto diceva che
Dio aveva scelto gli ebrei. Ewer la reputava una peculiarità. Ma nell’opinione
di più grandi e solenni menti cristiane, tutto questo era più che peculiare:
era nientemeno scandaloso che l’unico vero Dio, il Dio universale, il Dio di
tutti, avesse scelto un qualsiasi
popolo al quale dispensare i propri favori. E se ciò non fosse stato abbastanza
scandaloso, il particolare popolo che era stato scelto erano gli ebrei: una tribù malridotta appena
affrancatasi dalla schiavitù, che in quel momento vagava nel deserto.

È pur vero
che i frutti amari di questa predilezione speciale avrebbero nel futuro remoto
portato i discendenti di quei nomadi vaganti a pregare: “Caro Dio, per favore
scegli qualcun altro per cambiare”. Ma di per sé ciò avrebbe potuto essere
interpretato -quantomeno dai poveri di spirito- come una versione aggiornata
delle lamentele degli ebrei verso Dio, così ampiamente documentate dal libro
dell’Esodo, unitamente alla loro prontezza a ribellarsi in ogni momento alla
Legge rivelata loro sul Sinai -quella stessa legge che, attraverso la
strumentalità della scelta di Dio che vuole loro,
sarebbe infine stata riconosciuta da tutta l’umanità.%3C/p>

Certamente le
rimostranze degli ebrei verso Dio vengono anche da coloro che seguono
puntualmente i suoi comandi, nonché da coloro che faticano a capire perché sono
stati puniti e non ricompensati per questo. Assistiamo a questo tipo di proteste
nel libro di Giobbe e in seguito nei profeti Geremia e Abacuc, entrambe i quali
convocano Dio per quello che nei secoli a venire sarà chiamato un din Torah, un processo di fronte a una
corte rabbinica per rispondere precisamente a tali accuse. Né questo ha avuto
termine con i profeti. Forse l’esempio più deliziosamente pertinente ai giorni
nostri lo vediamo nella canzone popolare yiddish del diciottesimo secolo
chiamata il “kaddish” del Rabbino Levi Yitzhok di Berditchev, o A Din Toyreh mit Got. Recita in parte
così:

Buongiorno a te, Signore dell’Universo,

Io, Levi Yitzhok, figlio di Sarah di
Berditchev,

sono venuto ad avanzare una rimostranza

contro di Te da parte del Tuo popolo
Israele

Che cos’hai contro il Tuo popolo Israele?

Perché Ti accanisci sempre contro il Tuo
popolo Israele?

 

Vedremo tra
poco le risposte che i colleghi del Rabbino Levi Yitzhok hanno formulato. Nel
frattempo, ritornando alla cristianità, quest’ultima è infine stata in grado i
riconciliarsi con lo scandalo della peculiarità verso gli ebrei per una ragione
differente: ha capito quanto questo concetto potesse essere utile, una volta
utilizzato come pietra d’angolo per le proprie religioni. Ad esempio, un
religioso britannico nella sua predica presso la Cattedrale di Salisbusy
non molto tempo fa affermò:

È scandaloso che in un certo senso Dio
…si occupi degli ebrei più che di ogni altro…questo concetto è noto come lo
scandalo del particolarismo -l’idea secondo la quale Dio si è manifestato
principalmente attraverso una particolare nazione. Ma dopotutto si trattava di
un momento storico particolare, in un luogo preciso, e di una persona specifica attraverso la quale
Dio si è pienamente rivelato.

Ovviamente
gli ebrei non potrebbero e non possono sottoscrivere alla seconda parte di
questa definizione allargata dello scandalo del particolarismo: cioè a quella
che i cristiani chiamano l’Incarnazione. Né un numero consistente tra gli
stessi ebrei sottoscrive alla prima parte, in cui la predilezione per Israele viene
apertamente riconosciuta. E non rifiutano l’idea generale del popolo eletto soltanto
perché vorrebbero che Dio, per cambiare, avesse scelto qualcun altro.

Per questo
tipo di ebrei, l’idea del popolo eletto è solo un altro dei ridicoli miti che
nessuna persona illuminata potrebbe accettare. L’aspetto peggiore di tale
convinzione non è comunque la sua supposta irrazionalità. Secondo la loro
interpretazione, è precisamente attraverso il concetto di “predilezione” che il
male del razzismo è giunto nel mondo -quello stesso male che infine è stato
traslato nella pretesa del nazismo di essere un popolo scelto, e in nome della
quale, per una tremendamente tragica ironia, il popolo ebraico è divenuto la sua
principale vittima.

La maggior
parte degli ebrei che condividono questo punto di vista semplicemente non crede
in Dio. Ma ci sono anche ebrei che in un modo o nell’altro sono credenti, e ciò
nonostante considerano l’idea del popolo eletto come una primitiva
superstizione tribale che deve essere superata. Un esempio particolarmente
significativo che mostra fino a che punto si possono spingere questi ebrei nel
contrastare la dottrina del popolo eletto è quello del movimento
ricostruzionista, che costituisce uno dei rami del giudaismo americano. Questo
è ciò che questo movimento raccomanda di dire ai giovani che provano disagio di
fronte alla parzialità dimostrata da Dio agli israeliti:

La Bibbia narra di un tempo in cui la religione
israelita iniziava a differenziarsi dalle religioni dei popoli vicini. Tra le
“attrattive di vendita” c’era l’idea che la religione israelita era buona,
mentre le altre religioni erano tutte cattive. … Questo forse può sembrare
molto ingiusto alle nostre orecchie moderne, ma in verità non si tratta d’altro
che di una vera e propria “campagna promozionale” dell’antichità.

Inutile
dirlo, ma secondo gli ebrei di questo tipo la restrizione del Deuteronomio di tutte
le pratiche rituali ad un’unica città, Gerusalemme, rinforza solo lo scandalo del
particolarismo. Ai loro occhi, era già abbastanza grave che i primi libri della
Torah affermassero che l’unico vero Dio, il Dio di tutti gli uomini, si fosse
rivelato a un solo popolo tra tutte le nazioni della terra. Poi era arrivato il
Deuteronomio a peggiorare la situazione, ponendo l’accento sul giudaismo in
maniera ancora più esclusiva.

Il membro del
clero britannico da me menzionato un minuto fa ha elaborato una buona risposta
a questa obiezione:

A volte udiamo le persone affermare,
solitamente come scusante per il loro non recarsi in chiesa, che Dio è in ogni
luogo in ogni momento, e dunque possiamo adorarlo dovunque. Ma il nocciolo
della questione è che, nonostante vi possa essere verità in tale affermazione,
non sentiamo la presenza di Dio in ogni luogo e in ogni momento. Lo scandalo del
particolarismo è che sentiamo la
Sua presenza in momenti e luoghi specifici.

Per inciso,
questa è una affermazione assolutamente notevole. Per apprezzare realmente fino
a che punto, dobbiamo ricordare una tesi centrale a cui gli apologisti
cristiani hanno ricorso nei secoli per gestire il rapporto della loro religione
con il giudaismo. Mentre riconoscevano -e come potevano non farlo?- che la
cristianità era nata dal giudaismo, affermavano che essa rappresentasse un
gradino più alto dell’evoluzione della comprensione religiosa -nello specifico,
il passaggio dal particolarismo all’universalismo. E in ogni caso, dalle parole
del nostro religioso britannico traspare l’esplicita consapevolezza che la
questione non si esaurisce così semplicemente. Qui emerge la coscienza che il
particolare e l’universale non sono opposti in guerra tra loro. Abbiamo il
riconoscimento esplicito che l’universale affonda le proprie radici nel
particolare, e può essere raggiunto solo attraverso di questo.

Ora
se possiamo considerare rappresentativo il parere del membro del clero
britannico, sembrerebbe che i pensatori cristiani abbiano finalmente compreso
che ciò che erano soliti considerare uno scandalo, e molti ancora definiscono
tale, è in realtà tutt’altra cosa e costituisce piuttosto una verità
paradossale. Ma cosa ne pensano gli ebrei?

È evidente
che, tra coloro che in un modo o nell’altro credono in Dio, gli ebrei ortodossi
accettano l’idea di un popolo eletto in maniera letterale e senza giudizi o fraintendimenti.
Prima Dio apparve ad Abramo, e fece un patto con lui e con i suoi discendenti
passando per suo figlio Isacco e suo nipote Giacobbe. Poi si rivelò nuovamente
nella fiamma di un cespuglio a Mosè in Egitto, e a tutti i figli di Israele sul
Sinai, dove promise che se avessero onorato la loro alleanza sarebbero stati per
Lui “una nazione santa e un tesoro unico al di sopra di tutti i popoli”.

Per quanto i
credenti ortodossi si preoccupino di giustificare tutto questo agli occhi di
chiunque lo consideri un’inappropriata o persino immorale forma di orgoglio, essi
tendono ad enfatizzare che essere i prescelti rappresenta tanto un privilegio
quanto un peso -il peso di sottostare al giogo dei comandamenti. Oppure,
citando la risposta che diede il profeta Amos, e che coloro che si riconoscono nel
Rabbino Levi Yitzhok devono accettare: “Soltanto voi ho conosciuto tra tutte le
stirpi del mondo. Perciò visiterò contro di voi tutte le vostre iniquità”.

Come gli
ortodossi, quegli ebrei osservanti che appartengono al ramo conservatore del
giudaismo in America non trovano nulla di scandaloso nell’esclusivismo dell’essere
prescelti. Se sono meno letterali degli ortodossi nell’interpretazione della
dottrina, appaiono comunque a proprio agio con i suoi dettami. Ci sono tuttavia
due altri movimenti ebraici moderni, entrambe i quali hanno avuto origine,
almeno in parte, dall’imbarazzo provocato dall’idea del popolo eletto.

Il primo tra
questi, il giudaismo riformista, nacque in Germania nel diciannovesimo secolo.
I riformatori sottoscrivevano, per quanto debolmente, la convinzione di essere
prescelti. Tuttavia concordavano con l’allora prevalente opinione cristiana,
che tracciava una linea chiara ed invalicabile tra il particolare e
l’universale. Il passo successivo stava nel denigrare l’aspetto rituale della
Legge come espressione attiva dell’idea primitiva di particolarismo del popolo
eletto, ed invece elevare al suo posto i comandamenti morali o etici che
venivano ritenuti universali e quindi più evoluti ed illuminati.

Se il popolo
ebraico era stato scelto, affermavano i riformisti, ciò significava che avevano
la “missione” di far rispettare questi valori morali. Da qui i loro passi
preferiti nella Bibbia, pochi versi scelti di alcuni degli ultimi profeti, in
particolar modo Amos, Isaia e Michea -il quale, come commentai una volta molto
poco educatamente, sembrava venire considerato dai riformisti negli Stati Uniti
come un raccoglitore di fondi di alto livello per l’ala liberale del Partito
Democratico.

Il secondo
dei due movimenti ebraici moderni, nato in America nel ventesimo secolo, è il
ricostruzionismo. Da quanto ho citato in precedenza riferendomi ai suoi principi,
si comprende come esso rappresenti qualcosa di più audace del riformismo.
Infatti è giunto al punto di eliminare dalla liturgia ogni riferimento alla
dottrina del popolo eletto, inclusa persino la frase asher bakhar banu mikol ha-amim (“Signore hai scelto Israele da
tutte le nazioni”) nell’invocazione che l’assemblea recita quando risponde alla
Torah.

Sto dunque
sostenendo che credere che gli ebrei rappresentino il popolo eletto può essere
unicamente un’idea degli ebrei osservanti e dei cristiani credenti? Sono certo
che non sia così.

In
primo luogo, ritengo fermamente che l’universale possa essere raggiunto solo
attraverso il particolare, e non solo in ambito religioso, bensì anche nelle arti
e nelle scienze, le quali -per dirla con le parole del poeta inglese William
Blake- “non possono esistere se non organizzate nei minimi particolari”.
Certamente trovo ancora difficile dare un senso teologico e persino meramente
logico alla predilezione per Israele -così difficile da spiegare che non posso
semplicemente abbandonare l’idea, considerandola una stranezza per la Ragione e uno scandalo per
la Teologia. D’altra
parte mi trovo comunque, e persino con lieve sfacciataggine, a pensare che la
nozione di Israele come popolo eletto non debba essere intesa come una
questione di fede, che non potrà mai essere appurata; bensì come una
possibilità concreta che, in quanto ipotesi sottoponibile a verifica empirica,
sembra effettivamente poter acquistare valore scientifico.

Pensate.
Tutti i grandi poteri e i principati dell’antichità -gli assiri e i babilonesi,
i greci e i romani- tutti i potenti che hanno in un tempo o in un altro
conquistato le Terre di Israele ed in seguito 
dichiarato inaccettabili le pratiche religiose dei suoi abitanti ebrei,
oppure li hanno uccisi o banditi –tutti questi poteri, ognuno di essi tranne
uno, si sono dissolti nella polvere.

Salvandosi da
tutti questi influenti imperi attraverso la creazione di modalità di
sopravvivenza al di fuori di uno stato tradizionalmente concepito, gli ebrei
sono rimasti vivi. Sono stati un popolo riconoscibile per altri duemila anni,
malgrado le persecuzioni da parte di cristiani e mussulmani; malgrado le
conversioni forzate imposte col dolore e la morte; malgrado gli assalti omicidi
che sistematicamente si scatenavano contro di loro; e malgrado le espulsioni
totali da paesi come la Spagna
e la Francia
e l’Inghilterra, nei quali avevano temporaneamente trovato rifugio.

In un altro
tra i paesi europei, e nei nostri stessi tempi, un tiranno ha persino raggiunto
il potere intendendo pervenire ad una “soluzione finale” del “problema
ebraico”. La sua tecnica era molto più diretta di qualsiasi altra sino ad
allora impiegata. Semplicemente, uccise le istanze individuali di quel
“problema” fin dove arrivarono le sue forze, che nei primi decenni del
ventesimo secolo si rivelarono essere un abbondante terzo degli allora 18
milioni di ebrei.

Allo stesso
tempo, in un altro paese, un secondo tiranno stava facendo del suo meglio per
rendere impossibile per i tre milioni di ebrei o forse più che vivevano nel suo
paese seguire la propria religione o mantenere un qualsiasi legame con le loro
antiche tradizioni. E sappiamo che solo la sua morte nel 1953 evitò che si
adottassero misure ancora più estreme affinché l’ancora “irrisolto” problema
ebraico giungesse ad una soluzione finale.

Ciò
nonostante, tutti questi tentativi fallirono e gli ebrei –seppur inferiori in
numero e profondamente feriti nello spirito- erano ancora lì, e costituivano un
popolo riconoscibile, mentre Hitler e Stalin e gli imperi che essi avevano
costruito crollavano nella stessa ignobile polvere in cui si erano dissolti i
loro predecessori. E lo stesso, volendo azzardare una sfacciata predizione,
accadrà anche per i persiani oggi ed i loro alleati arabi, i quali -seppur
negando che ci fu un Olocausto durante la Seconda guerra mondiale-, si sostengono l’un
l’altro minacciando di eliminare Israele dalla faccia della terra durante la guerra
che stiamo combattendo ora, quella che io mi ostino a chiamare la Quarta guerra mondiale.

Israele: lo
stato che gli ebrei hanno costruito con successo dopo quasi due interi
millenni, nel corso dei quali sono morti e sopravvissuti, sono stati tollerati
e perseguitati, guardati con sopportazione e vissuto in balia dei capricci dei regimi
ai quali sono stati soggetti. E ancora più notevole, tale stato è edificato su
quello stesso territorio dal quale originariamente erano stati esiliati, così lungamente
che lo stesso esilio ha acquisito per loro una certa sfumatura di eternità
virtuale (azoi lang vi di goles,
“lungo come l’esilio”, si dice in yiddish
di qualsiasi cosa sembri protrarsi eternamente).

E c’è ancora
da aggiungere a questa storia. Poiché oltre al nuovo stato di Israele, ci fu
anche l’America, verso la quale più di un secolo fa milioni di ebrei iniziarono
ad emigrare da due tra i grandi principati moderni oggi scomparsi: l’impero
austro-ungarico degli Asburgo e l’impero russo dei Romanov. Questi immigrati
ebrei chiamavano l’America di goldene
medineh
, “la terra dell’oro”, e con ragione. Ovviamente non si trovava
l’oro per le strade, come alcuni di loro avevano immaginato, il che significò
che molti dovettero affrontare difficoltà, anche pesanti. Ma c’era un altro
tipo di oro in America, più prezioso di quello che si trova nelle monete. C’era
la libertà e c’erano le opportunità. Con il favore di queste condizioni, ed esposti
a meno virulente forme di antisemitismo e discriminazione -con le quali comunque
erano già stati abituati a confrontarsi-, i figli, nipoti e pronipoti di questi
immigranti crebbero prosperi, a livelli sino a quel momento sconosciuti al loro
popolo.

Fu
dunque così che, ancor prima che la componente restante del popolo ebreo
tornasse alla propria casa ancestrale, un’altra parte trovò una nuova patria in
un luogo sconosciuto, un mondo nuovo che mai avevano creduto possibile
esistesse nel corso di tutte le loro precedenti e forzate peregrinazioni nei
secoli sulla terra.

Né si può affermare
che gli ebrei siano semplicemente sopravvissuti in senso puramente materiale.
Ascoltiamo Mark Twain che scrive nel 1899, molto prima che l’America divenisse
concretamente una nuova patria per gli ebrei ed ancor prima che essi costruissero
il proprio stato nella terra d’Israele. Accade che, vivendo a Vienna, Mark
Twain conobbe Theodor Herzl; nonostante non si opponesse totalmente al progetto
di quest’ultimo per “riunire gli ebrei di tutto il mondo in Palestina, con un
proprio governo”, Twain credeva fosse un dovere politico impedire “una simile
concentrazione dei cervelli più saggi del mondo”, perché “non era opportuno che
a questa razza fosse permesso scoprire la propria forza”. Considerando che Mark
Twain descriveva gli ebrei come “macchine per fare soldi”, così come tra
l’altro è stato dai tempi di Giuseppe in Egitto sino ai giorni nostri, ci si
aspetterebbe che egli -come il profeta pagano Balaam nella Bibbia- li
maledicesse, o quantomeno li denigrasse. Invece, proprio come Balaam, Twain
finì per elargire benedizioni su di loro. Egli scrisse:

Gli ebrei costituiscono un quarto circa
dell’un per cento della razza umana. Ciò suggerisce un nebuloso, opaco
puntolino di pulviscolo stellare perso nella luminosità della Via Lattea. Non
si dovrebbe sentir parlare degli ebrei se non vagamente, invece se ne sente
parlare spesso, da sempre. Sono rilevanti come ogni altro popolo del pianeta, e
la loro importanza è bizzarramente sproporzionata rispetto all’esiguità del
loro numero. I loro contributi alla lista dei grandi nomi della letteratura,
della scienza, delle arti, della musica, della finanza, della medicina e delle
conoscenze esoteriche sono smisurati rispetto al loro debole numero. Hanno
coperto enormi distanze nel proprio volo attraverso i secoli; e lo hanno fatto
con le mani legate dietro la schiena. … Gli ebrei … sono ora ciò che sono
sempre stati, non mostrano segni di decadenza né malattie dell’età, nessun
indebolimento delle membra, né diminuzione delle energie o annebbiamento della
propria mente vigile e battagliera. Ogni cosa deve finire, ma non gli ebrei;
tutte le forze si esauriscono, ma loro rimangono. Qual è il segreto di questa
immortalità?

Recentemente,
un tentativo di sbrogliare questa segreta matassa in un suo aspetto particolare
è stato compiuto dal brillante scienziato sociale americano Charles Murray.
Tuttavia dopo aver esaminato varie teorie che professano di rivelare la ragione
alla base di ciò che egli chiama il “genio ebraico”  -vale a dire gli straordinari e decisamente enormi
successi intellettuali e culturali degli ebrei-, Murray le rigetta, dichiarandole
tutte insufficienti ed alzando le mani al cielo. “A questo punto”, scrisse
sulla rivista Commentary, “riscatto
l’unica ipotesi che mi resta. … Gli ebrei sono realmente il popolo prescelto da
Dio”.

Per
quanto possa apparire faceta, se questa è la conclusione a cui giunge (per sua
stessa descrizione) uno studioso laico dell’Iowa dalle radici
scozzesi-irlandesi, forzato dalle evidenze empiriche ad ammetterne la
plausibilità, chi siamo noi ebrei per negare tutto ciò? E se, sempre sulla sola
base delle evidenze empiriche, e senza necessariamente affidarci alla realtà di
ciò che non si può vedere che ci offre la fede religiosa, accettiamo invece tutto
questo, allora siamo costretti ad unirci agli altri ebrei che -come il Maggiore
Lupolianski- sostengono che “Gerusalemme non solo è parte indivisibile della
nazione ebraica, ma costituisce la base della sua esistenza”. E se siamo
d’accordo sulla centralità di Gerusalemme, dobbiamo necessariamente andare
ancora oltre: verso un coraggioso rifiuto dei reprensibili ideologi
post-sionisti e anti-sionisti che sono fin troppo pronti a vedere Gerusalemme
di nuovo divisa, oppure trasformata nella capitale di uno stato bi-nazionale
che eliminerebbe il particolarismo degli ebrei di Israele, per rimpiazzarlo nemmeno
con la fantasia di un’utopia universalistica ma con un fin troppo reale
particolarismo arabo-mussulmano. E ci troviamo quindi a rigettare, anche se in
maniera più garbata, la posizione di alcuni sionisti che, per quanto
riluttanti, sono pronti ad accettare una partizione come prezzo della pace con
i palestinesi.

Purtroppo,
le speranze di pace oggi e le conseguenze prevedibili per il futuro sono
illusorie, così come ai tempi del profeta Geremia quando denunciò tutti quei
falsi profeti e sacerdoti corrotti che lenivano le ferite del popolo con
blandizie di pace, pace, quando pace non poteva esserci. Fortunatamente, lo
stesso sondaggio che mostra come il 57 per cento degli israeliani è disposto a
pagare il prezzo della partizione di Gerusalemme per una pace con i palestinesi
riporta anche un cospicuo 84 per cento che non si fa ingannare dalle promesse
di pace pronunciate dai falsi profeti di oggi.

Qualche
attimo fa ho predetto impudentemente che i persiani dei nostri tempi e i loro
alleati arabi falliranno nel loro tentativo di cancellare Israele dalla mappa
del mondo. Ora concluderò con una previsione ancora più irriverente: che i loro
regimi, come il lungo elenco dei loro predecessori antisemiti che generazione
dopo generazione si sono mobilitati per distruggerci, saranno quelli che
cadranno nella polvere, mentre lo stato ebraico, che è veramente l’ottava
meraviglia del mondo, continuerà a prosperare -e certamente lo farà con
Gerusalemme sua capitale, una capitale unita.

Traduzione
di Alia K. Nardini