Su Kabul una meschina lotta di potere
21 Gennaio 2007
Forse è davvero meglio che i soldati italiani di stanza in Afghanistan tornino a casa.
Lo diciamo con la morte nel cuore perché fin dall’inizio, all’indomani degli attentanti dell’11 settembre, quando “eravamo tutti americani”, ci sembrò che l’azione internazionale contro il regime dei talebani fosse la contromisura necessaria e adeguata al colpo subito quel terribile giorno.
Oggi le cose sono cambiate e tenere dei soldati in armi in una situazione di pericolo con un “fronte interno” come quello rappresentato dalla classe politica al governo ci pare molto pericoloso.
Neppure i democratici americani, che pure hanno vinto le elezioni di mid-term sulla promessa di una exit strategy dall’Iraq, hanno il coraggio di pagare il prezzo politico di una mozione che blocchi i finanziamenti alle truppe sul campo. Sanno che sarebbe un gesto così antipatriottico da alienarsi il consenso dei loro stessi elettori.
Qui in Italia invece buona parte della maggioranza, segretari di partito e ministri compresi, discutono senza ritegno l’ipotesi di bocciare il finanziamento alla missione in Afghanistan,
Come è dunque possibile tenere soldati impegnati in una missione rischiosissima se in patria essi si riducono ad essere la pedina di un gioco politico un po’ osceno, fatto di ritorsioni, ricatti e di pura micragna lessicale.
Possiamo rischiare la vita dei soldati italiani mentre qui infuria uno scontro sul sofisma della “discontinuità” rispetto alla politica estera del governo Berlusconi? Possiamo appendere le sorti di una missione internazionale voluta dall’Onu e gestita dalla Nato al piccolo cabotaggio semantico di trovare una traduzione sufficientemente vaga di “exit strategy”?
E’ possibile chiedere altri sacrifici all’Esercito quando la terza carica dello Stato, il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, sostiene la legittimità di una politica schizofrenica che un giorno indossa la grisaglia di governo e l’altro l’eskimo del disobbediente?
Non c’è passione politica vera in questo dibattito, non c’è il condensarsi di una strategia alternativa per l’Afghanistan o per il ruolo dell’Italia nel mondo, non c’è amore per la pace. C’è solo una piccola partita di potere e di sussistenza elettorale che approfitta del voto sul decreto di finanziamento della missione militare per regolare i conti di Vicenza e sgomitare un po’ sulla ribalta della demagogia nazionale.
Non è un caso se l’articolo 118 della legge Finanziaria, una delle pochissime cose sensate di quel prontuario di balzelli, non ha nemmeno visto le aule parlamentari. Quell’articolo stabiliva il finanziamento per le missioni italiane all’estero per i successivi 3 anni e non ogni sei mesi. Verdi, Rifondazione e Comunisti italiani hanno preteso la sua cancellazione dal testo prima ancora che uscisse da palazzo Chigi. La loro idea era esattamente quella messa in atto oggi: “tra sei mesi piantiamo un’altra grana”. Perché rinunciare ad una così ghiotta occasione di tenere il governo sulla graticola, contrattare qualche scambio e prendersi le prime pagine dei giornali?
Il ministro degli esteri D’Alema si sforza di rassicurare se stesso il mondo che l’Italia manterrà i suoi impegni in Afghanistan. Forse dovrebbe rassegnarsi e ammettere che un paese così governato non è in grado di compiere missioni di tale impegno e complessità, non può esporre il suoi soldati all’isolamento e all’improvvisazione. Meglio fare un passo indietro: finché dura questa situazione lasciamo perdere la lotta al terrorismo e la difesa della democrazia. Occupiamoci del vettovagliamento o della fureria e nessuno si farà male.
da Il Tempo