Su una Lettera alla Chiesa e alcuni equivoci

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Su una Lettera alla Chiesa e alcuni equivoci

24 Giugno 2007

Avrà eco nazionale una Lettera alla Chiesa fiorentina, datata 8 marzo 2007, espressione di un’area “conciliare” del laicato fiorentino, con nomi di qualche peso (eredi di p. Ernesto Balducci e di ambienti parrocchiali un tempo influenti, e antichi simpatizzanti non fiorentini). Il documento e una serie di messaggi di commento e consenso si trovano in  http://www. letterachiesafiorentina.blogspot.com. Il card. Ennio Antonelli, arcivescovo di Firenze, ha incontrato estensori e firmatari in un’assemblea pubblica (24 maggio u.s.). Il 28 maggio Alberto Melloni è venuto a Firenze a sostenere l’iniziativa in un dibattito molto seguito. In questi mesi la chiesa di  Firenze è comunque alla ribalta nazionale per una vecchia vicenda di pedofilia e “plagio” cui ha dato rilievo Santoro, ad Annozero. Anche questa materia è presente, come occasione non secondaria di polemica col card. Antonelli e specialmente col Vescovo ausiliare, mons. Maniago, tra le righe della Lettera; la cronaca fiorentina di Repubblica aveva già dato voce, a più riprese, alla protesta del laicato “critico” per l’assenza di dialogo e di pubblicità intraecclesiale dei fatti. Poiché il clima di “disagio” denunziato nella Lettera è diffuso (per il caso Welby e per le scelte pubbliche della CEI del card. Ruini) nel cattolicesimo italiano che si riconosce nelle sinistre politiche,  e aveva trovato qualche espressione persino a Verona, sembra opportuno tenerlo sotto osservazione. Polemica “esterna” (nello stile e con gli strumenti alla Santoro) e polemica interna alla Chiesa corrono di conserva, e si uniscono talora nelle stesse persone e ambienti.  Pietro De Marco, docente di Sociologia della religione all’Università di Firenze e all’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Firenze, e vicino in passato agli ambienti che hanno prodotto la Lettera, è da anni critico di questo “dissenso” cattolico, sui terreni teologici e politici. Il testo che segue è la versione integrale di un intervento pubblicato in sintesi da ToscanaOggi/L’Osservatore Toscano  del 10  giugno 2007.

 

Su una Lettera alla Chiesa e alcuni equivoci

 

Mi permetto di  proporre alla discussione la mia valutazione critica della Lettera alla Chiesa Fiorentina. Nel farlo penso con rispetto ai molti amici che figurano nel gruppo estensore-promotore come nel nutrito elenco delle adesioni, e conto che vogliamo leggermi con pazienza. Sintetizzo le istanze e gli argomenti del documento che mi sembrano preminenti. Istanze esplicite sono, sotto la cifra un po’ manierata del confronto e della condivisione con Vescovo e Pastori (quello che oggi si designa anche con il termine sinodalità, usato estensivamente): 

a)  un’influenza del laicato sulle posizioni e decisioni pubbliche della chiesa gerarchica, in modo che esse appaiano ad extra rappresentative della pluralità di opinioni, “scelte ed esperienze” nella chiesa (che “non possono essere ridotte ad un’unica voce”),

b) una pratica ecclesiale ad un tempo armonica con la laicità (dello stato, della sfera pubblica) e preoccupata della “significatività” della fede per tutti,

c) il ruolo del Vescovo come “ministero della sintesi”.

Gli argomenti, in effetti “suggerimenti” metodologici per una presenza ecclesiale nella società, sono 

a)     la necessaria attenzione/ascolto al “genuinamente umano” e delle “scelte, talvolta travagliate, delle persone” (con esplicito riferimento al caso Welby),

b)    il laico rispetto per i diritti di tutti (con esplicito riferimento alla sanzione legislativa delle forme di convivenza),

c)     la non riduzione della fede ad “una morale” (corollario: la fede sicura di sé “non si impone attraverso la legge dello stato”). 

Ovvero, per la Lettera  la Chiesa sembra autenticarsi, nonostante o anche contro la norma ecclesiale, nel riconoscimento del genuinamente umano, nell’accettazione della laicità dei moderni come dato indiscusso, nella esibizione della propria (conseguente) incompetenza nell’ordine morale-sociale. Una civitas Dei microcomuntaria e coscienziale.

Senza dubbio (ricordando anche le testimonianze/interventi dell’assemblea del 25 maggio) le richieste esprimono il  “disagio” di laici (non dei laici) cattolici di fronte al dissidio di questi anni (anzi decenni) tra magistero romano (ed episcopato italiano) e una opinione pubblica laica (e anche laicale) che in alcune aree del paese dà l’impressione di essere senz’altro dominante e (con ciò) rappresentativa dell’uomo contemporaneo! Vi sarebbe di che ridere se le conseguenze non fossero preoccupanti. 

%3Cp>Ho già esposto su ToscanaOggi la mia diagnosi della fragilità cattolica di fronte alla disapprovazione laica (forse meno estesa di ciò che dà a credere col suo clamore) e alla sua querula pressione morale. È un buon punto di partenza per queste mie controdeduzioni. In effetti l’ansia di fronte alla diasapprovazione laica è così forte che in nessuna riga della Lettera e in nessuno degli interventi ai dibattiti (cui ho assistito) è mai comparso il sospetto che i christifideles laici (tanto più questo laicato) avrebbero il dovere (ma anzitutto delle preziose opportunità di fede e ragione) di esaminare ed intendere le ragioni e le decisioni dei Pastori. Quanti hanno conservato la consuetudine (da anni, da decenni) di leggere gli atti magisteriali ordinari, spesso notevolissimi, nella loro interezza e non dalle sintesi (degli spezzatini e delle sprezzature) dei soliti quattro quotidiani?  Chi lo avesse fatto non potrebbe oggi ascoltare senza reagire il dispregio progressista (dispregio inconsulto e tutto “politico”, entro e fuori la Chiesa) per il magistero antropologico di Giovanni Paolo II o per il richiamo al Logos e al diritto naturale di Benedetto XVI.  Quanti, tra i firmatari della Lettera, che sono anche catechisti sentono l’impegno intellettuale di formarsi anche solo alla Introduzione al Cristianesimo di Joseph Ratzinger?

Si badi: l’impegno intellettuale e religioso ad “ascoltare” la Chiesa (prima che ad essere ascoltati), quella Chiesa che continua a riflettere ed operare secondo responsabilità, vale  anche in  merito ai casi disciplinari: quanti “in stato di disagio” si sono impegnati ad  intendere i criteri della decisione del Vicariato sul caso Welby?  Qualcuno ricorda che esiste una distinzione tra foro interno e foro esterno, con una diversa articolazione tra carità e giustizia? Certo non si ricava questo necessario sapere dalla sorgente da cui il laicato “critico” accede ai documenti romani, ovvero l’onnipresente Repubblica di Scalfari e Mauro, di Zagrebelsky, Merlo o Cordero.

Non mi sembra davvero che qualcuno impedisca al laicato di parlare. Il punto è, come è stato scritto, che in queste condizioni il laicato delle doléances ha poco da dire;  sintomatico che si trovi a coniugare (da anni, o decenni) citazioni del Concilio con le cose dette dai “maestri laici”.  Poco ha da dire anche la Lettera, se gli amici possono perdonarmi questo giudizio – un testo che (salvo un paio di riferimenti all’oggi) avrebbe potuto essere scritto indifferentemente dieci, venti, trenta anni fa. Chiedo: si può davvero credere che la retorica della misericordia, ossia l’inibizione alla Chiesa del giudizio e del suo compito di guida, sia all’altezza dei decenni che hanno travolto la visione novecentesca (quella progressista) della Modernità? A Firenze il nodo è qui, nella non discussa persistenza dell’antropocentrismo dell’ultimo Balducci, che si era fatto culto polemico dell’uomo contemporaneo. S’intende: era un paradigma di comodo, finché serviva; lo si poteva usare nelle cose interne ovvero per dichiarare l’esaurimento della tradizione, anzi dell’analogia fidei e aprire contenziosi con l’ecclesia docens; per rigettarlo come paradigma borghese parlando dell’Altro e del Sud del mondo. 

Cerco, allora, di capire che significhi il titolo che si è voluto dare all’incontro con Alberto Melloni: Chiesa cammini con l’uomo? Infatti la Chiesa, la civitas Dei quae est in terris, quae peregrinatur, ontologicamente non può che “camminare” con l’uomo e per l’uomo, sacramentalmente e magisterialmente; la domanda è in sé oziosa. Ma, in tutta evidenza, qui il senso di quel “con” è un altro; si vuol dire: ‘Chiesa, assumi come tuo paradigma l’uomo, e non  l’uomo del corpo mistico in cui sussisti ma (per definizione) quello “esterno”, difforme, peccante, l’uomo agostiniamente cittadino della civitas hominum!’.

 E l’equivoco di molto Novecento, lo stravolgimento della dialettica delle duae civitates: la civitas Dei dovrebbe cercare oggi la propria autenticità nel consenso della (e, in profondità, nell’imitazione della [questo è un genitivo oggettivo, mentre dovrebbe rectius essere g. soggettivo]) civitas hominum dei Moderni, poiché essi sono gli uomini “adulti” e i loro quasi-valori paradigmatici.  Come questa distruttiva vulgata sia penetrata nell’intelletto cattolico è una domanda magari appassionante intellettualmente (esistono più risposte, da tempo). Certo ogni stagione che passa essa mostra, ve ne fosse bisogno, i propri effetti perversi.

So che molti amici aspirerebbero ad una chiesa che fosse “una libera società di uomini che si radunano di loro spontaneità per onorare pubblicamente Dio, nella forma che essi credono accetta alla divinità, per la salvezza delle anime”; peccato che questa celebre definizione di Locke, canone della “religiosità” laico-secolare,  implicasse, per istituire lo spazio pubblico dei moderni, la dissoluzione della dimensione veritativa, non meno che di quella istituita, della Catholica. Se la dimensione veritativa non fosse depressa nella cultura cattolica delle doléances non sfuggirebbe che il confronto antropologico della Chiesa con le culture postmoderne (non “con l’uomo”!), confronto e scontro esteso alla materia legislativa (come in tutti gli ambiti di rilevanza bioetica, inclusa la definizione di coppia umana e le sue implicazioni), è rivolto alla tutela essenziale dell’uomo, ovvero dell’apice della creazione. Quel confronto è memoria attiva e reverente del Dio creatore per l’uomo. Attiva poiché in questa materia gli effetti di una disciplina giuridica, se, contro la propria essenza, essa viene incontro a pressioni e pulsioni invece di regolarle, non favoriscono “opinioni”, ma distruggono fattualmente, obiettivamente, esseri e valori. Né una responsabilità  magisteriale potrebbe ridursi entro le comunità credenti; sarebbe metodo e orizzonte lockeano, da ecclesiola e club, cui la laicità moderna vuole ridurre la Chiesa.

Se i cristiani non hanno l’intelletto e il coraggio di affrontare la disapprovazione dell’uomo contemporaneo (in effetti di una intelligencija disorientata e culturalmente spesso inconsistente, tenuta in piedi da altri), lascino questo affrontement a chi ne ha forza e mandato, senza pretendere di frenarne l’azione. Il contradicitur della Chiesa  non potrà ricavare forza dalle sinodalità locali come tali. L’esercizio del carisma d’ufficio dei Pastori non può essere, su terreni decisivi, ricondotto a procedura, ovvero alla registrazione di un punto d’equilibrio tra gruppi di opinione (poiché solo questo rischia di essere la  “sintesi”).

Il cattolicesimo non è morale, ha morale; uno straordinario ordinatore umano-divino del senso del nostro (umano) operare. Tanto più necessario evocare gli istituti della positività cristiana perché il cosiddetto uomo contemporaneo (per usare questa generalizzazione deformante) non ha bisogno di essere blandito o confermato, ma (e questo è esercizio di agape) di essere avvertito, frenato, ostacolato, nella propria deriva. È il compito della civitas Dei. A nulla serve cercare il compiacimento altrui per il nostro pluralismo e la nostra delicata invisibilità civile.