Su vita, famiglia e libertà di educazione c’è ben poco da negoziare

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Su vita, famiglia e libertà di educazione c’è ben poco da negoziare

24 Dicembre 2010

Siamo a Natale: un pensierino (più) religioso (del solito) ci sta. Chi crede che oltre alla materia esista pure lo spirito e da questa considerazione si fa orientare in maniera non estemporanea plaude, con aperta soddisfazione, all’idea che vadano difesi sempre e comunque, nella sfera privata così come nell’agone pubblico, quel set di questioni di fondo (che cioè fondano tutte le altre) oggi con formula assai felice (per sinteticità e pregnanza) indicato come “princìpi non negoziabili”. Si tratta di vita, famiglia e libertà di educazione, e l’idea è che ogni costruzione sociale e ogni considerazione politica non possano partire che da lì: dalla difesa del diritto alla vita umana dal concepimento alla morte naturale, dalla difesa della famiglia naturale come dimensione propria all’essere umano e prima cellula della società, dalla difesa del diritto-dovere della famiglia naturale stessa a educare la prole.

Sono “princìpi non negoziabili”, questi, poiché non possono essere oggetto né di contrattazione né di discussione, e che quindi, come tali, dividino. O li si promuove, oppure no, tertium non datur. Ogni altro valore è secondario rispetto a quelli non perché (almeno talvolta) conti meno, ma proprio perché viene dopo, in secondo luogo, su quelle basi fondandosi. I valori, infatti, assumono valore in base a un criterio, quindi tollerano una gerarchia, dunque possono pure essere (e anche lecitamente) oggetto di scambio e discussione, laddove invece i princìpi sono quelli che stanno a monte di tutto, null’altro essendovi prima. Non si contrattano, stanno sempre al top della gerarchia, sono il parametro con cui valutare tutto il resto.

Tali “princìpi non negoziabili” godono del massimo plauso di quanti pensano che oltre alla materia vi sia pure lo spirito poiché essi vengono immediatamente (cioè senza mediazioni) collegati a una visione religiosa della realtà. Non è del resto questo il luogo dove affrontare un nodo simile, che peraltro è una verità solo a metà. Se è vero infatti che le persone diciamo “religiose” legano quei princìpi a una visione non materialistica del reale, detti princìpi sono però anche perfettamente comprensibili alla ragione umana in quanto tale (e del resto anche le persone religiose propongono basi di confronto con i non-religiosi proprio appellandosi, anche inconsciamente, alla ragione e non di per sé alla religione). Ma questo è un discorso complesso, che va affrontato bene e che soprattutto non è in oggetto ora.

Quel che qui è in oggetto è il rilevare appunto come fra i “religiosi” i “princìpi non negoziabili” costituiscano la visione del mondo portante, determinante anche le prospettive seconde, cioè per esempio politiche. I cattolici (che nella suddetta formula felice dei “princìpi non negoziabili” rivendicano con orgoglio l’impronta netta del regnante pontefice), i protestanti, gli ortodossi e gli ebrei attivi nella scena politica dell’Occidente se ne vanno spavaldamente fieri. I famosi (una volta) theocon di per sé altro non erano che questo: l’“esercito intercofessionale” che su vita, famiglia e libertà di educazione giocava tutto il proprio agire nel sociale e nel politico, e se i theocon non “esistono più” (vale a dire la stampa nostrana non brandisce più quel termine come un randello) ciò non significa che l’“esercito” sia scomparso. Anzi.

Basta vedere il successo mondiale che di giorno in giorno cresce attorno alla Manhattan Declaration lanciata nel cuore della corrotta Grande Mela un anno fa per capacitarsi del successo “intercofessionale” che arride oggi alla “buona battaglia” per vita, famiglia e libertà di educazione. E per comprendere la soddisfazione con cui diversi ambienti e leader “religiosi” paiono talora “cantare vittoria”. Innegabile, infatti, è che certe posizioni magari fino a poco tempo fa impopolari mietano oggi successi anche numericamente notevoli, insomma che il secolarismo che secondo certe previsioni tutto avrebbe dovuto travolgere oggi segni per lo meno il passo.

Epperò da qui a dire che la battaglia è conclusa molto ne passa. Proprio questo sembra di evincere dall’articolo Being on God’s Side: An Open Letter to the Religious Right, comunque stuzzicante e intelligente, firmato sul su First Things: A Monthly Journal of Religion and Public Life da Joe Carter, direttore del suo coté sul web, ovvero sul mensile (teoricamente intercofessionale in realtà cattolico) brillantemente diretto fino alla scomparsa da Richard John Neuhaus (1936-2009), ex pastore luterano poi divenuto sacerdote cattolico (e ratzingeriano tetragono).

Perché a leggere bene le diverse sollecitazioni che da quel contibuto (prezioso) vengono, due sono le conclusioni che si possono tirare. La prima è che l’unità culturale delle persone “religiose” è sacrosanta tanto quanto essa contiene intrinsecamente la liceità di scelte pratiche diverse (pur tutte ispirate da quella unità sui fondamentali), in campo per esempio economico, oppure militare, o latamente sociale. Senza scandalo, peraltro, e in nome di quella sana laicità delle opzioni concrete che non contraddice e anzi proprio si basa sull’unità d’intenti principiali. La formula, piuttosto nota, è quella In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas, attribuita a sant’Agostiono d’Ippona (354-430), ma in realtà apocrifa. Questione religiosa e religiosissima, anzi persino cattolica e cattolicissima.

La seconda però è quella che si domanda: possibile che se si è uniti laddove la disunione significherebbe inconciliabilità (in linguaggio “religioso” leggi eresia) si possa differire nel tradurre il tutto in operatività? Più chiaramente: se i princìpi sono condivisi, come si può non condividere le loro incarnazioni? Possibile è possibile, certo; la storia è tutta narrazione di questo e la politica è per definizione l’arte del possibile. Ma qual è il limite della discrezionalità nell’agire pratico? Quanto è cogente una dottrina sociale ispirata e mica vagamente ai “principì non negoziabili”? E quante, lecite, ve ne possono essere? Si può essere uniti su vita, famiglia e libertà di educazione, e poi dividersi fra comunisti, capitalisti o nazisti? Oppure va a finire che propri i non-negoziabili vengano sacrificati?

Non sono, queste, questioni di scuola: sono priorità cogenti del pensiero pratico. Si può salvaguardare, si chiede oggi una parte importante del conservatorismo statunitense, i “princìpi non negoziabili” e alimentare posizioni radicalmente diverse sulla riforma sanitaria proposta da Barack Hussein Obama, e noi italici aggiungiamoci pure il “commercio equo e solidale” o la riforma dell’università? Ovviamente sì: ma a che prezzo? E un “giusto prezzo”? Insomma, raggiunta una chiarezza interconfessionale sui “princìpi non negoziabili” non è forse giunta l’ora di ragionare di una politica stringente che da essa discende e che per forza di cose non può differire, nelle scelte di ognuno, come il giorno dalla notte?

In Italia è un problema che ci portiamo dietro e dentro sin da che è nato la questione democristiana; negli States il tema torna oggi alla ribalta nel momento in cui il grandioso fenomeno dei “Tea Party”, raggiunto un punto fermo importante in politica mediante il successo elettorale ottenuto alla Camera federale il 2 novembre dal Partito Repubblicano, prende a interrogarsi su cosa significhi combattere uno Stato predatorio che ipertassa i cittadini tanto quanto fa carne di porco di vita, famiglia e libertà di educazione. Da noi non ce ne accorgiamo poiché pensiamo che Oltreoceano abbiano protestato a gran voce “solo” contro le tasse: ma là, dove la realtà è ben diversa da codesta nostra percezione, la problematica sta crescendo d’importanza. Ci sono cattolici che ancora votano candidati liberal, protestanti che in tutto dipendono dal sermone domenicale ma che poi scelgono sempre personale politico radical ed ebrei credenti che non sanno più riconoscere i mentitori pubblici. Qualcuno se n’è accorto e sta invocando la sveglia.

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute e direttore del Centro Studi Russell Kirk