Sudan, perché il mandato d’arresto contro al-Bashir non ha funzionato

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Sudan, perché il mandato d’arresto contro al-Bashir non ha funzionato

09 Marzo 2009

La recente decisione del Tribunale Penale Internazionale di emettere un mandato d’arresto nei confronti del presidente sudanese Omar Hassan al-Bashir ha sollevato un coro di approvazioni nel mondo occidentale. Le accuse rivolte al presidente sudanese riguardano crimini di guerra e contro l’umanità, commessi durante il conflitto del Darfur, inziato nel 2003. Tuttavia i mass media hanno trattato l’argomento in modo superficiale, spesso mancando di analisi politica.

Il Tribunale Penale Internazionale è stato creato, sotto l’egida delle Nazioni Unite, il primo Luglio del 2002 con il Trattato di Roma. Ha il compito di giudicare persone fisiche per genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità, reati di aggressione. Attualmente, il tribunale è riconosciuto da 108 Stati. Tra i paesi che, a vario titolo, non hanno ratificato il trattato, ci sono grandi potenze come gli Usa, la Russia, l’India, la Cina, Israele e molti Stati arabi e africani.

Peraltro, questa è la prima volta che il Tribunale Penale Internazionale emette un mandato d’arresto verso un capo di Stato ancora in carica, una mossa che sembra il classico passo più lungo della gamba, dal momento che nessuno ci ha ancora spiegato chi e come dovrebbe andare ad arrestare il presidente Bashir. Lo stesso Luis Ocampo, procuratore capo del Tribunale Internazionale, ha dichiarato al canale satellitare Al-Arabiya che non “invieremo nessuno ad ammanettare il presidente sudanese”.

Che senso ha, quindi, una giustizia che non ha i mezzi per far rispettare le proprie sentenze? La Cina, che ha forti interessi economici in Sudan, e i regimi arabi, si sono già mobilitati per convincere il Tribunale Internazionale a tornare sui suoi passi. Bashir, inoltre, ha dichiarato che si recherà al prossimo summit della Lega Araba a Doha e le autorità del Qatar non hanno alcuna intenzione di fermarlo.

È comprensibile che i leader della Cina e del Medio Oriente, che violano quotidianamente i diritti umani nei propri paesi, e che temono che il Tribunale possa un giorno emettere una sentanza contro di loro, abbiano uno scatto di solidarietà nei confronti di Bashir. Ma è impensabile che il piccolo Tribunale possa aspirare a diventare una sorta di Demiurgo della politica internazionale, che decide quale capo di Stato debba essere imprigionato e chi possa restare al suo posto. Le sue, dunque, sembrano destinate a restare dichiarazioni d’intenti e nulla più.

Per di più, il mandato di arresto dà a Bashir il pretesto di dare un giro di vite alle già scarse libertà di cui godono i cittadini sudanesi. Talha Gibril, intellettuale sudanese e caporedattore a Washington del quotidiano saudita Asharq al-Awsat, ci ha spiegato che il mandato d’arresto mette in difficoltà gli Stati Uniti per implementare il trattato di pace con il Sud del Sudan.

“Nel 2005 era stato firmato il Comprehensive Peace Agreement (CPA) fra il governo sudanese e il Sud del paese che prevedeva, fra l’altro, elezioni generali nel 2009 e un referendum per l’autodeterminazione del Sud Sudan nel 2011,” spiega Gibril, “Bashir cercava disperatamente il pretesto per non effettuare queste elezioni ed adesso il Tribunale Internazionale gliene ha fornito uno”. Peraltro la società civile non si è ancora organizzata per andare alle urne, e quindi, anche in caso di elezioni, a vincere potrebbe essere lo stesso partito di Bashir. Oppure potrebbe tornare in auge l’islamista Hassan Al-Turabi – il chierico che ospitò Bin Laden in Sudan.

Elezioni o meno, Bashir sembra destinato a rimanere al potere ancora a lungo. Sempre il procuratore Ocampo ha dichiarato che Bashir potrebbe restare altri due anni al governo. Anche se fosse deposto, non lo aspetterebbe la prigione, dato che già corrono voci di un suo esilio in Qatar, negli Emirati Arabi o in Arabia Saudita.

Secondo Gibril, anche se Bashir se ne andasse questo non significherebbe un miglioramento automatico della situazione in Darfur. Il giornalista non lesina critiche ai media occidentali per i loro reportage sul Darfur. “I media occidentali vogliono mostrare che quella del Darfur è una guerra etnica – spiega – ma questo è un modo semplicistico per descrivere quello che sta succedendo. In Darfur le popolazioni sono sottoposte sia alle violenze delle milizie filo-governative che a quelle dei ribelli che spesso si combattono fra di loro. Per di più molti politici e giornalisti che discettano sul Darfur non hanno mai visitato la regione”.

Va anche considerato che le fazioni del Darfur che lottano contro il regime di Khartoum non sono migliori di Al-Bashir. Il fatto di essere avversari del presidente sudanese non gli conferisce automaticamente delle credenziali democratiche, cosa di cui la stampa occidentale non sembra accorgersi. Sabato scorso, per esempio, il Corriere della Sera è uscito con un’intervista a Khalil Ibrahim, il capo del JEM (Justice and Equality Movement), uno dei movimenti dei ribelli del Darfur, presentandolo come una specie di “libertador” capace di spodestare il despota Bashir. Per la cronaca, Ibrahim, nato in Darfur e appartenente alla tribù Zaghawa, è stato ed è tuttora un seguace di Hassan al-Turabi.

Quando nel 1989 Bashir prese il potere con un colpo di stato, Ibrahim, che si trovava in Arabia Saudita, rientrò in Sudan e, grazie ai buoni uffici di Turabi, si guadagnò il posto di ministro dell’istruzione nella regione del Sud Sudan, abitata da africani cristiani e animisti. Più che come “educatore”, la fama di Ibrahim deriva dall’aver organizzato le milizie che combattono contro il Sudan People’s Liberation Movement (SPLM) dell’ex leader John Garang, un movimento cristiano che fa capo alla tribù africana Dinka. A quei tempi, Ibrahim veniva chiamato "l’emiro dei mujahiddin" per le sue mattanze di africani cristiani. Intervistare il leader ribelle del Darfur può essere uno scoop, ma non sottolineare la sua connotazione islamista è un’omissione grave.

L’impressione è che in questo affaire del mandato di arresto del Tribunale Penale sia mancata totalmente la politica internazionale. Se si vuole spodestare un dittatore (Saddam docet) bisogna dotarsi dei mezzi adeguati per farlo ed avere le idee chiare sugli scenari che si vogliono aprire in seguito. Il processo di Norimberga avvenne dopo avere sconfitto la Germania nazista, non prima.