Sui “proximity talks” incombe il fantasma di Camp David
15 Maggio 2010
L’amministrazione Obama sta commettendo un errore nel forzare Israele e l’Autorità palestinese a discutere questioni “centrali” come Gerusalemme, i profughi, i confini e gli insediamenti quando le due parti segnalano a gran voce quanto sia più grande che mai che la spaccatura che le divide su argomenti tanto esplosivi.
Non c’è alcun dubbio che i colloqui falliranno. I primi a pagarne il prezzo saranno Mahmoud Abbas e Fayyad perché i palestinesi si rivolgeranno a loro per chiedere che la smettano di parlare di pace e coesistenza con Israele. Gli unici a trarne beneficio saranno Hamas e i suoi amici di Teheran e di Damasco. I “colloqui di prossimità” finiranno per sabotare i moderati e dare coraggio agli estremisti tra i palestinesi.
Con l’insistere a porre sul tavolo la questione di Gerusalemme e dei rifugiati, l’amministrazione Obama sta mettendo israeliani e palestinesi in rotta di collisione.
Com’è accaduto prima del summit di Camp David, i proximity talks arrivano dopo un periodo di relativa calma, nel quale per di più l’economia del West Bank dà l’impressione di essere in notevole miglioramento. Israele e Hamas sembrano aver raggiunto una sorta di cessate il fuoco non ufficiale che, lo scorso anno, ha avuto come risultato un calo della violenza e delle vittime. Dall’altro lato, nel West Bank, il coordinamento della sicurezza tra i palestinesi, l’Autorità e Israele è una delle ragioni per le quali gli attentati suicidi hanno fatto registrare una battuta di arresto.
Inoltre, gli americani e gli europei continuano a riversare miliardi di dollari sul governo della West Bank del primo ministro Salam Fayyad, un gesto che ha condotto a un significativo miglioramento degli standard di vita nella zona.
Ma ora che si sta riportando alla vita il “processo di pace”, i risultati raggiunti sul fronte economico e della sicurezza sembrano essere a rischio. E presto o tardi, gli israeliani e i palestinesi finiranno per scambiarsi accuse su chi vada incolpato per il fallimento dei colloqui “di prossimità”.
Alla vigilia dello scorso summit, molti palestinesi e israeliani erano convinti che le due parti fossero più che mai vicine a trovare un accordo che mettesse fine al conflitto una volta per tutte. Ma a tanto grandi speranze, seguì una delusione ancor maggiore, in particolare fra i palestinesi, che poi sfogarono la rabbia e la frustrazione su Israele.
L’ultima volta che questi argomenti vennero messi sul tavolo è stato nell’estate del 2000, al summit di Camp David, quando l’allora presidente Bill Clinton fece praticamente tutto ciò che era in suo potere per costringere Ehud Barak e Yasser Arafat a raggiungere un accordo. Il fallimento di Camp David non fece altro che aggravare le tensioni tra Israele e i palestinesi che presero ad accusarsi a vicenda di ostacolare il “processo di pace”. Le tensioni raggiunsero il culmine a settembre dello stesso anno, con l’esplosione delle seconda intifada.
Ironia della sorte, le cose sembravano aver imboccato la giusta direzione appena prima del pasticcio dell’incontro di Camp David. Certo, non si trattava di una situazione ideale, ma se non altro c’era meno violenza e molti palestinesi potevano ancora spostarsi tra la West Bank e la Striscia di Gaza per andare al lavoro in Israele. C’erano i segnali, allora, di un’economia palestinese che finalmente stava cominciando a migliorare.
Ma appena il presidente Clinton costrinse Arafat e Barak a cominciare ad affrontare le questioni “centrali”, soprattutto il futuro status di Gerusalemme e dei suoi luoghi sacri, esplosero le tensioni. Arafat non aveva intenzione di passare alla storia come il leader arabo e musulmano che aveva ceduto parti di Gerusalemme agli ebrei. Al contrario, lui aveva sempre cercato di dipingersi come un moderno Saladino, il guerriero musulmano che cacciò i Crociati dalla Terra Santa.
Analogamente, Arafat non voleva che le future generazioni di arabi e musulmani lo condannassero per aver rinunciato al “diritto di ritorno” dei profughi palestinesi ai loro villaggi d’origine in Israele.
A farla breve, fu un Arafat in difficoltà a dover fare il tentativo di spiegare al presidente Clinton che non riteneva di avere mandato per fare reali concessioni sulla questione di Gerusalemme e dei profughi.
Arafat tornò a casa da Camp David con il messaggio che Israele non vuole la pace sulla base del suo rifiuto di ritirarsi entro i confini antecedenti al 1967 e di dare ascolto alle altre richieste dei palestinesi, prima fra tutte il “diritto di ritorno”.
Ora il presidente Obama sta ripetendo lo stesso errore. Le questioni “centrali” di Gerusalemme, dei profughi, degli insediamenti e dei confini sono ancora una volta sul tavolo. Questa volta su quello dei colloqui “di prossimità”, sponsorizzati dagli Stati Uniti, tra Israele e i palestinesi.
Per fare in modo che i colloqui abbiano buon esito, entrambe le parti dovrebbero fare delle concessioni, non solo su Gerusalemme o sui profughi, ma anche su una gran varietà di argomenti sensibili. A come le cose sembrano stare adesso, né Abbas né Benjamin Netanyahu sono nella posizione per fare concessioni di ampia portata.
© Hudsonny
Traduzione Andrea Di Nino