Sui salari italiani il ‘Corriere’ dà dei dati e il governo Monti li smentisce
27 Febbraio 2012
In base al Rapporto Eurostat dello scorso Ottobre 2011, i salari dei lavoratori italiani risultavano essere tra i più bassi d’Europa. Il nostro paese si collocava al dodicesimo posto, davanti solo a Portogallo, Slovenia, Malta e Slovacchia. Il reddito medio lordo rilevato è di circa 23.000 euro. Nonostante i dati dell’Eurostat fossero perfettamente conoscibili da ben cinque mesi, ‘Il Corriere della Sera’ di Lunedì 27 febbraio ospitava la notizia nelle prime tre pagine del giornale.
Aperture giornalistiche che subito hanno innescato reazioni politiche significative. Già nella giornata di ieri è arrivata la replica della Presidenza del Consiglio. Il dato italiano, ripreso nella tavola 7.1 del Rapporto Eurostat, si riferisce al 2006 e non, come nel caso degli altri paesi, al 2009. Si tratta di dati temporalmente disomogenei e quindi non comparabili. La contro-tabella Istat (“Retribuzioni lorde e costo del lavoro annuo per occupato nelle imprese con oltre 10 dipendenti (2008)”) rappresenta invece un’ Italia in piena media europea. Le retribuzioni lorde annue si attesterebbero invece a quota 29.600 euro, ben al di sopra di quelle dei nostri “colleghi” spagnoli (24.600) e greci (22.600), a totale smentita del catastrofismo di Eurostat e del quotidiano di ‘Via Solferino’.
Giuliano Cazzola – deputato del Pdl ed ex sindacalista della Cgil – contattato ieri da ‘l’Occidentale’ sulla questione ha dichiarato che “il Report di Eurostat”, ripreso dal ‘Corriere della Sera’ del 27 Febbraio, rappresenta un vero e proprio assist a chi ritiene che non vi sia nulla da modificare nell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (Cgil su tutti). Inoltre, occorrerebbe anche comparare il diverso peso del fisco rispetto alle retribuzioni dei lavoratori europei per avere un quadro più completo della vicenda. Ed infine, la crescita dei salari dei lavoratori italiani non può che passare attraverso l’estensione della contrattazione decentrata e cioè mediante un sistema capace di premiare con più salario maggior produttività”.
Il primo obiettivo del governo Monti dovrebbe essere il varo di un disegno di legge che possa condurre il mercato del lavoro a criteri di maggiore flessibilità. Occorre un processo riformatore di ampio respiro che sia in grado di scardinare – per dirla con le parole del Ministro del Lavoro Elsa Fornero – “il welfare che ci ha accompagnato per gran parte del Novecento, ossia il sogno di uno stato capace di accompagnare i cittadini in tutte le situazioni di debolezza che si è rivelato insostenibile perché ha creato troppo debito”. E’ stata proprio la rigidità del nostro mercato del lavoro la causa principale di quel pessimo posizionamento, il dodicesimo posto, in sede Eurostat. I bassi salari dipendono essenzialmente da un welfare onnipresente e onnicomprensivo, da un fisco opprimente, e da oneri molto pesanti di natura contributiva gravanti sulle imprese, che riducono le chance di aumenti dei salari in busta paga.
Le chance di riforma dipenderanno anche molto da come la sinistra parlamentare si collocherà rispetto al dibattito sulla riforma del mercato del lavoro. Come noto, rispetto a una certa ortodossia presente dentro il mondo sindacale e partitico di estrazione marxista, la modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è divenuto un totem inscalfibile dell’identità culturale di sinistra. Non tutti, fortunatamente, a sinistra mostrano tale ortodossia. All’interno dell’ala più riformista del Partito Democratico (minoranza nel Partito), infatti, la questione dei licenziamenti individuali è da anni al centro di un ampio dibattito. Si pensi solo al senatore e giuslavorista Pietro Ichino, autore di una proposta di legge tesa al superamento del cd. ‘controllo giudiziale sui licenziamenti individuali con la responsabilizzazione dell’impresa per la ricollocazione del lavoratore.
Il disegno Ichino non necessariamente risponde alle esigenze di liberalizzazione del mercato del lavoro. E’ però un passo nella buona direziona. L’anacronismo del welfare novecentesco – nonché la strenua difesa sindacale di un sistema inefficiente – risulta oramai evidente a (quasi) tutti. Di fatto maggior flessibilità in uscita è ormai non solo necessaria ma urgente. La creazione di nuovi posti di lavoro passa anche da lì. Inoltre, il mercato del lavoro risente tuttora della scarsa applicazione dei cd. “contratti di prossimità” (anche conosciuti come “contratti di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale”).
L’art. 8 del Dl 138 del 2011 – convertito in legge 14 settembre 2011 n.148 – andava proprio in questa direzione. Questi accordi, in deroga ai contratti collettivi nazionali, possono realizzare specifiche intese finalizzate anche “agli incrementi di competitività e di salario”. In questo modo, il legislatore ha voluto offrire alle parti sociali (e quindi anche ai rappresentanti dei lavoratori, ça va san dire) un importantissimo strumento teso ad incrementare il binomio produttività/retribuzione. La speranza è che i sindacati italiani non siano così miopi da perdere un’occasione del genere, finalizzata a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori che rappresentano.