Sul 25 Aprile aveva ragione il Cav.: chiamiamola la Festa della Libertà
26 Aprile 2012
Winston Churchill, lo stesso che ai sui compatrioti aveva promesso lacrime e sangue per la vittoria finale su Hitler, ironizzava non poco su noi italianuzzi dicendo che non eravamo, nell’immediato dopoguerra, quarantacinque milioni, bensì novanta, poiché se prima della guerra sul territorio dello Stivale sgambettavano ilari e felici quarantacinque milioni di fascisti, subito dopo il conflitto si era scoperto che, nascosti da qualche parte, vi erano anche quarantacinque milioni di antifascisti.
Ma oggi le cattiverie della perfida Albione non ci toccano: festeggiamo la favola bella della Pasqua di Resurrezione del Popolo italiano, il 25 Aprile.
Siamo tutti partigiani. E la Santa Repubblica Democratica fondata sul Lavoro, ritrova così ogni anno le fondamenta costituzionali su cui, con buona pace di quella ”malalingua’ di Salvemini, ha costruito il suo contratto sociale postfascista.
Ma, visto che da un’esperienza traumatica conviene trarre una qualche lezione che possa servirci per non ricadere negli stessi errori, come era potuto accadere che l’Europa e il mondo fino a poco tempo prima, fossero stati messi a ferro e fuoco dal Nazismo e dal Fascismo?
Dando vita a fenomeni di una ferocia tale, nel secolo dell’automobile, della radio, degli aerei, del telefono, come l’eliminazione industriale di una decina di milioni di esseri umani, coma mai si era visto dall’antichità sino a quel momento?
Nell’Antonio e Cleopatra di Shakespeare, Cleopatra, che non ha più notizie del suo bell’Antonio dopo che era stato richiamato a Roma, lasciando a malincuore i bunga-bunga e i burlesque alessandrini, chiede notizie all’Indovino di corte. Il quale risponde "Nel grande libro della Natura, qualcosa so leggere".
In tutte le epoche vi sono individui che sanno scorgere, al di là della quotidianità, i demoni che agitano le menti di popoli e civiltà intere.
Come ben documenta il grande Elèmire Zolla nel volume "Uscite dal mondo", nel capitolo "Il Superuomo", Sezione "L’Inghilterra vittoriane e edoardiana", Adelphi. Milano, 1992.
Tancred mostra all’apice la lunga meditazione di Disraeli sulla sete di potere e sulla santità e il risultato è una capacità di veggenza e una docenza prognostica. A misurarne la precisione bastano alcuni cenni: Disraeli calcolò le conseguenze dell’eclissi cristiana sul sistema degli archetipi europei e dedusse (i calcoli furono abbastanza complessi) che di lì a non molto sarebbe emerso un culto del superuomo, individuando a uno a uno perfino i singoli tratti specifici, che elencò in Lothair (uscito nel 1870): un culto neopagano della stirpe, l’abbandono della cultura basata sul libro, l’eugenetica, precisando addirittura che sarebbero prevalse in Germania una dottrina "ariana" e un "ritorno a Sparta" e in Italia un culto cesareo: "… 0f such principles, believe, a great revival is at hand", con tali principi, credetemi, un grande revival è dietro l’angolo. Tale la forza d’uno sguardo educato a cogliere i gioco degli archetipi dietro le apparenze visibili, a porsi ogni tipo di domanda sui destini possibili dell’uomo; una veggenza paragonabile a questa dell’uomo che si aggira fra le regge e le cancellerie dell’Europa si ritrova soltanto nell’impiegato della dogana di New York reduce dall’aver esplorato i fondali del cosmo, il mistero di Ahab da un lato e la santità di Pip o di Rama, i figli del Divino Inerte, dall’altro: in Clarel, anch’esso del 1870, Melville prevede che in futuro si fronteggeranno in Europa due forze politiche, la Chiesa cattolica e il comunismo, la prima appoggiata a partiti democristiani (usa la parola); prevede l’estinzione dello spirito democratico "di frontiera" negli Stati Uniti e nella lontananza discerne il sangue dei disordini razziali nelle città americane, prima del sionismo già descrive il conflitto tra i coloni ebrei e Arabi in Palestina".
Ma non a caso lo stesso grande ricercatore, nel capitolo "Politica archetipale", in "Archetipi", Marsilio Editori, Venezia 1988) ironizza:
"La dominazione degli archetipi e ancor più manifesta nella storia civile che nella psicologia individuale. Le reazioni stereotipe della vita politica denunciano l’asservimento ad un archetipo esclusivo esattamente come le ridondanze, le smorfie, i tic in una persona. E più facile per un individuo guarire delle sue coazioni che per una comunità ricredersi sul velo dipinto dove sono raffigurati i suoi miti, dopo che un carme secolare li ha consacrati, facendoli passare per «la storia», per «il dovere», per «l’interesse nazionale». Pochi sono in grado di riconoscere nella storia una mera esemplificazione dell’archetipo dominante, di cui il dovere e la voce, l’interesse nazionale la proiezione.Ogni generazione resta confitta in un suo scenario politico, rifiuta di riconoscere le modificazioni successive a quando, durante una crisi, incontrò il suo archetipo fatale. Per le generazioni psichicamente mutilate da guerre e rivoluzioni, lo schieramento politico si cristallizza irrimediabilmente, esse non riescono più a concepire un diverso sistema di riferimenti e ogni novità riportano nei termini del gioco passato che le strega. Lo statista che deve sbrigare gli affari quotidiani, dovrà mentire, fingere che le categorie sono sempre le stesse della guerra o della rivoluzione in cui la sua generazione si è incapsulata: dovrà usare residuati linguistici delle contese trascorse, perché soltanto a questo prezzo il suo gregge lo segue".
Questa è la ragione per cui quando, nel 2009, a Onna, il Cav. laicamente propose di trasformare il 25 Aprile da Festa delle Liberazione in Festa della Libertà, anche in nome di una Storia finalmente condivisa, i fedeli della Religione della Resistenza lo fecero oggetto di contumelie e accuse di qualunquismo.