Sul “bunga-bunga”, la sinistra può leggersi Slate
15 Novembre 2010
di redazione
Qualche giorno fa sulla home page di Slate, eccentrica rivista liberal americana, campeggiava una spiritosa faccetta del Cav. con il titolo "Che diavolo è il bunga-bunga?". Leggendo l’articolo, un divertito esempio di filologia dell’assurdo, abbiamo appreso che la parola bunga-bunga ha molti altri significati oltre a quello esposto nella barzelletta raccontata da Emilio Fede.
All’epoca dell’Australia coloniale, gli europei chiamavano bunga-bunga il territorio nei pressi del Lago Bunga, abitato si dice dai cannibali. Il termine è stato usato dalla Woolf e il gruppo di Bloomsbury per indicare i "selvaggi" di quelle lande desolate, ne troviamo conferma in questo raro cartone animato di Bugs Bunny. In Indonesia, la fanciulla più bella del villaggio viene chiamata "bunga-bunga" e gli abitanti declinano il verbo "berbunga-bunga" quando parlano di lei.
Messo da parte il dizionario, ci preme fare una considerazione serena sul destino del giornalismo e del mondo della cultura di sinistra in Italia. In America riviste come Slate o Salon hanno un atteggiamento sornione verso i rapporti fra sesso, politica e società (memore del caso Lewinsky, Slate ha difeso Christine O’Donnell alle elezioni di midterm). In Italia per trovare gli ultimi esempi del genere dobbiamo risalire al giornalismo irriverente degli anni Ottanta, quando “fogliacci” come Il Male o Cuore, l’inserto satirico di Repubblica, sapevano prendersi gioco dei pubblici vizi, senza compatirli ed ergersi a giudici e insieme giuria.
Oggi il giornalismo di sinistra si è fatto più cupo e contrito, pretesco e poliziesco. Un esempio è l’involuzione di Michele Serra da funambolo del cazzeggio a "commentatore morale" sul degrado berlusconiano, una figura, quest’ultima, che in altri Paesi europei è a dir poco sconosciuta. Insomma, alla cultura di sinistra servirebbe più ironia che intercettazioni e moralismo in manette. Nel frattempo godiamoci Slate.