
Sul fronte delle banche possiamo ritenerci i più fortunati d’Europa

23 Luglio 2009
Quando nello scorso settembre ci furono le prime avvisaglie del fallimento di Lehman Brothers, pochi potevano immaginare che fosse reale. Il suo amministratore delegato, Richard Fuld, ha cercato fino all’ultimo di tranquillizzare azionisti e obbligazionisti, reputando sicura la posizione della banca d’affari statunitense. Tuttavia, dopo la bancarotta è iniziato il tracollo degli altri istituti di credito, fino al punto odierno. Se negli Stati Uniti si pensa ad un nuovo piano di stimoli per le banche, in Europa bisogna fare i conti con un sistema che sta fagocitando sempre più denaro per limitare i danni.
L’ultimo esempio è quello di Peer Steinbrück, ministro delle finanze tedesco, che sta valutando una nazionalizzazione forzata delle banche, al fine di evitare una stretta creditizia globale nel prossimo autunno. L’idea, sorta di comune accordo con il Cancelliere Angela Merkel non propone un termine scaduto il quale lo stato federale tedesco possa uscire dal capitale degli istituti di credito. No, non si fanno date. Questo è forse l’aspetto più singolare, visto che di fatto non pone una stima su quella che potrebbe essere la fine della crisi sorta dai subprime. Inoltre, sulla scia della Federal Reserve, sono mesi che la Banca centrale Europea (Bce) ventila l’ipotesi di stress test sul capitale delle banche dell’Eurozona, in un modo nettamente più profondo di quelli americani. Finora però le differenze dei due sistemi sono state cruciali, dato che quello europeo è molto più complesso di quello statunitense. Axel Weber, presidente di Bundesbank e membro direttivo della Bce, ha spiegato che «la maggiore complessità viene dal fatto che le banche europee operano per lo più in maniera ibrida offrendo sia servizi di retail che di investimento. Inoltre esistono ancora significative differenze a seconda dei singoli Paesi e la Bce ha di fatto meno poteri coercitivi rispetto alla Fed». E sul mandato della Bce, Weber aggiunge che i limiti sono tanti: «Se un istituto dell’Eurozona avesse necessità di nuovi capitali, ma il governo di quel paese non fosse intenzionato a intervenire, allora i risultati degli stress test si rivelerebbero del tutto inefficaci». Certo, perché oramai l’azzardo morale è talmente elevato che negli operatori finanziari vi è completa sicurezza sull’intervento indulgente della Bce.
Infatti, se è vero che gli stress test in ambito europeo potrebbero non risolvere i problemi che affliggono il sistema bancario, è altrettanto vero che la Bce ha agito più volte con generosità. In giugno ha avuto luogo un’asta di 442 miliardi di euro (tasso 1 per cento) a cui hanno aderito 1121 attori differenti. E l’Italia non è stata ferma in questa corsa famelica verso la liquidità a basso costo fornita dalla Bce. L’esperto di diritto bancario della Bocconi, Marco Onado, in un articolo apparso su Lavoce.info il 12 luglio scorso, ha analizzato le parole del governatore di Banca d’Italia, Mario Draghi, l’indomani dell’assemblea dell’Abi, chiedendosi «cosa sta succedendo alle banche italiane?». Domanda legittima, considerando le poche criticità che ha manifestato il nostro sistema, forse anche per una recondita tradizionalità negli investimenti, che alcuni chiamano arretratezza. Non si deve però pensare che il nostro sistema sia meno importante o più piccolo. Intesa Sanpaolo e UniCredit sono realtà consolidate nel panorama internazionale, ma l’esposizione alla crisi è stata minore. Onado cerca di spiegare i motivi: «Non hanno problemi patrimoniali, perché Draghi ce lo dice continuamente e proprio all’Abi ha annunciato i risultati, sostanzialmente favorevoli, dello stress test condotto in questi giorni». Ma non vi sono nemmeno criticità di liquidità dato che , continua Onado, gli istituti di credito italiani «ricorrono in misura largamente inferiore alle altre di Eurolandia ad operazioni straordinarie per importo e convenienza».
Il sistema italiano è quindi in buona salute? Nonostante le recenti bacchettate di Draghi, ogni segnale che arriva dall’Abi è positivo, specie guardando agli altri stati europei. Dato per certo che l’unica certezza in merito alla crisi è che non si devono avere certezze – i casi Bear Stearns, Lehman, AIG e Citigroup lo ricordano – i nostri istituti di credito paiono in difficoltà, ma non morenti, come possono essere le varie zombie banks americane (o islandesi, per restare in Europa). Per una volta, l’Italia dovrebbe lasciare i panni del vittimismo e guardarsi intorno. Troverebbe delle situazioni ben peggiori della sua.