Sul pagamento del debito, attenzione ad agitare il modello Islanda

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Sul pagamento del debito, attenzione ad agitare il modello Islanda

22 Maggio 2012

Davanti alla tempesta finanziaria che sta scuotendo l’Europa, da alcuni economisti è stata avanzata la soluzione di seguire la strada intrapresa dall’Islanda dopo il collasso del suo sistema bancario, ovvero quella della sospensione dei pagamenti dovuti ai creditori stranieri. In realtà la situazione islandese, nonostante gli indubbi progressi registrati dal Paese, resta quanto mai complessa presentando tuttora una serie di problemi che rendono il quadro assai più incerto di quanto sembri a prima vista.

Situata nell’Atlantico settentrionale a metà strada tra l’Europa e l’America, quest’isola vulcanica di poco più di trecentomila abitanti fino a non molti anni fa era nota più che altro per i suoi geyser e le saghe nordiche vichinghe. Autonoma ma legata in unione personale con la corona danese dal 1918, occupata dagli Alleati nell’estate del 1941 per impedire che i tedeschi vi potessero stabilire una base navale, entrata nella NATO grazie alla sua posizione strategica, l’Islanda ha avuto sempre un’economia basata quasi esclusivamente sulla pesca, un settore florido che per anni ha assicurato al Paese uno dei redditi pro capite più alti al mondo.

A partire dalla fine degli anni Novanta, l’isola decise però di inserirsi nel mercato finanziario internazionale trasformandosi in uno dei centri più attivi ed intraprendenti nel settore dei servizi. Grazie alla deregulation avviata dal governo, le banche islandesi espansero così le loro attività fuori dai confini nazionali, principalmente nei Paesi nordeuropei, tanto che, stando ad uno studio preparato dal “Congressional Research Service”, già nel 2007 più della metà dei proventi degli istituti di credito proveniva dalle attività gestite dalle filiali all’estero. Se in apparenza quindi l’Islanda sembrava in grado di attirare un flusso di ricchezza senza precedenti, come dimostrava la performance straordinaria della borsa locale, ad un’analisi più attenta apparivano invece quanto mai fondate le critiche di chi riteneva come il Paese stesse entrando invece in una pericola fase di speculazione che avrebbe potuto esplodere provocando gravissime conseguenze.

Difatti nella primavera del 2008 gli analisti iniziarono ad invitare gli investitori alla prudenza, sottolineando come le banche islandesi, avendo necessità di ottenere finanziamenti e prestiti a breve scadenza per operare, stavano diventando ad alto rischio. Sarà tuttavia con l’esplodere della bolla dei mutui subprime prima ed il crac della Lehman Brothers poi che le fragilità del sistema finanziario islandese verranno alla luce provocando il crollo dell’intera economia del Paese. Nell’Ottobre 2008 le tre principali banche del Paese, le cui attività avevano raggiunto una cifra dieci volte superiore a quella del PIL islandese, non riuscirono a rifinanziarsi sul mercato e si trovarono così a far fronte a dei debiti il cui ammontare era pari a quasi il 13% dello stesso PIL.

Davanti alla prospettiva di un crollo dell’intera economia nazionale, il governo Haarde decise quindi di nazionalizzare gli istituti di credito nel tentativo di fermare la discesa della moneta nazionale, sottoscrivendo successivamente un piano di stabilizzazione con il FMI in cambio della concessione di un prestito di 2,1 Miliardi di Dollari. Nei mesi seguenti all’autunno del 2008 la disoccupazione, fino ad allora sconosciuta, arrivò a raggiungere quasi il 10%, mentre la svalutazione della Corona islandese provocò un’impennata dell’inflazione che arrivò a sfiorare il 20% annuo. Ma, cosa ancora peggiore, gli islandesi si trovarono a fronteggiare il problema di come rimborsare i mutui contratti con le banche divenuti improvvisamente insostenibili. Stipulati in un momento in cui il cambio con l’Euro era estremamente favorevole, con il deprezzamento di oltre il 60% della Corona questi divennero praticamente insostenibili così che chi aveva acquistato un immobile si trovò costretto o all’insolvenza oppure a restituire la casa alle banche.

Sul piano politico, il disastro ha avuto come conseguenza prima le dimissioni del Premier conservatore Geir Haarde – recentemente assolto dall’accusa di aver provocato il collasso del sistema finanziario – e successivamente l’arrivo al governo di una coalizione di centro – sinistra formata da Socialdemocratici e Verdi e guidata da Johanna Sigurdardottir, unico Premier del mondo a dichiararsi apertamente omosessuale. Dal lato istituzionale, dopo il crac il Paese in un referendum popolare convocato due anni fa ha respinto la proposta di accordo sottoscritta dal governo con il quale si doveva procedere alla restituzione dei crediti avanzati da Olanda e Regno Unito, mentre in seguito ha deciso di darsi una nuova Costituzione dove, caso unico nel panorama internazionale, le proposte sono state presentate dai cittadini direttamente attraverso Internet.

Oggi, a quasi quattro anni dal crollo, la situazione economica islandese appare migliorata pur rimanendo comunque ancora non pochi interrogativi. Da un lato è vero che il PIL, dopo essersi contratto del 6,7% del 2009, negli ultimi due anni è cresciuto rispettivamente del 2,9% e del 2,4%, la svalutazione della Corona ha attirato nel Paese investitori e turisti attratti dai prezzi favorevoli e le esportazioni, trainate dai prodotti ittici, sono aumentate di oltre l’11%. Ma dall’altro però è innegabile come la disoccupazione, pur scesa al 7%, rimane comunque ad un livello sette volte maggiore del 2008, senza contare poi come un numero considerevole di islandesi, tra cui quelli con le più alte specializzazioni, abbia deciso di emigrare verso la Norvegia e gli altri Paesi scandinavi alla ricerca di migliori opportunità.

Inoltre, per effetto dell’aumento dei ratei causato dalla svalutazione della Corona, quasi la metà di quelli che prima del crac avevano sottoscritto un mutuo per l’acquisto di un immobile si trovano oggi impossibilitati a pagare, senza contare poi come il reddito disponibile sia attualmente inferiore di circa un terzo rispetto a quattro anni fa ma con i prezzi invece aumentati della stessa percentuale visto che il Paese importa quasi tutto. Resta il fatto che la soluzione adottata dall’Islanda appare improponibile per risolvere l’attuale crisi del debito esplosa in alcuni Stati europei. E questo non solo per il fatto che l’Islanda, contrariamente ai Paesi dell’Eurozona, ha mantenuto la sua sovranità monetaria che gli ha permesso di attuare una “svalutazione competitiva” per favorire le esportazioni.

Ma essenzialmente perché l’Islanda è un Paese di poco più di trecentomila abitanti che, di fronte al crollo del sistema bancario, proprio per le ridotte dimensioni ha potuto reindirizzare la sua economia nuovamente verso il settore ittico da sempre elemento fondante della ricchezza nazionale. Quella islandese è dunque una soluzione praticabile solo per Stati di piccole dimensioni e con un settore primario e delle materie prime in grado di favorire le esportazioni e la ripresa economica. Proporlo per la Grecia – o addirittura per l’Italia come ha avanzato qualcuno – è invece solo da incompetenti nonché da scriteriati.