Sul Presidente della Repubblica serve una nuova prassi dell’alternanza

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Sul Presidente della Repubblica serve una nuova prassi dell’alternanza

18 Marzo 2013

Nella cosiddetta Prima Repubblica per l’elezione del Presidente della Repubblica vigeva una prassi consolidata che prevedeva l’alternarsi tra laici e cattolici per la guida della massima carica dello Stato, nonostante la DC avesse avuto sempre i numeri per eleggere un proprio candidato. Erano esclusi, tuttavia, dalla possibilità di diventare presidenti della Repubblica gli esponenti delle forze cosiddette antisistema, ossia il PCI ed il MSI. Pertanto, in virtù di tale consuetudine, abbiamo avuto come massima espressione dello Stato esponenti di partiti minori come Luigi Einaudi del Pli, Giuseppe Saragat del Psdi e Sandro Pertini del Psi.

Tale prassi è stata infranta due volte. La prima, in occasione della successione a Gronchi nel 1962, al quale subentrò Antonio Segni, espressione della destra democristiana, a bilanciare la nascente esperienza di governo del centrosinistra. Una Presidenza che durò, tra l’altro, appena due anni, lasciando il passo nel 1964 al socialdemocratico Saragat. La seconda volta, invece, nel 1992, nel pieno della crisi politico-istituzionale che stava investendo l’Italia e che di lì a breve porterà alla cancellazione dei partiti tradizionali.

In quel caso, mentre i partiti non trovavano la quadra sul nome che doveva succedere a Francesco Cossiga, in particolare per i voti posti nei confronti di Bettino Craxi, nel pieno delle votazioni per il Quirinale l’Italia fu colpita al cuore per l’omicidio di Giovanni Falcone. All’indomani del barbaro evento, le forze politiche fino ad allora litigiose, si accordarono sul nome di Oscar Luigi Scalfaro, neoeletto Presidente del Senato.

Da allora, abbiamo conosciuto altri due appuntamenti per l’elezione del Presidente della Repubblica, rispettivamente nel 1999 e nel 2006, ossia nel pieno della cosiddetta Seconda Repubblica. In entrambi casi, in questo lungo ventennio caratterizzato dall’alternanza bipolare tra un polo di centrosinistra ed uno di centrodestra, il momento della scelta è sempre coinciso con i periodi in cui le forze di centrosinistra godevano di una maggioranza in Parlamento.

Se nel 1999 ci si orientò per una scelta condivisa anche con l’opposizione, scegliendo l’ex governatore della Banca d’Italia e Primo Ministro nel 1993 del governo di transizione al nuovo assetto politico-istituzionale, Carlo Azeglio Ciampi, uomo di formazione e cultura azionista e liberale, nel 2006 gli allora DS e Margherita, d’accordo con gli alleati minori (Rifondazione Comunista, Verdi e Udeur), decisero di abbattere uno dei tabù che ancora reggeva dalla Prima Repubblica, scegliendo come prima carica dello Stato un esponente già comunista, il migliorista Giorgio Napolitano.

L’elezione di Napolitano venne considerata allora come una forzatura in virtù del fatto che il centrosinistra godeva di una maggioranza alla Camera del 55% dei seggi ottenuta grazie ad appena 24mila voti di scarto ed in virtù di un’assurda legge elettorale che loro, in primis, avevano significativamente osteggiato.

Un giudizio di merito sul metodo, che non investe, tuttavia, quello sulla condotta tenuta dal Presidente. L’equilibrio e la caratura di Giorgio Napolitano sono stati, infatti, elementi fondamentali per la tenuta istituzionale del nostro Paese in questi anni. E’ possibile affermare, alla scadenza del suo mandato, che il suo settennato si è contraddistinto per la capacità della massima carica dello Stato di rappresentare nel migliore dei modi i valori dell’unità Nazionale e le ragioni dell’intero Parlamento, nonché una fermezza nel prendere decisioni delicate e di assoluta importanza in alcune fasi salienti vissute dall’Italia in questi lunghi e travagliati anni.

A distanza di sette anni, si è aperto il dibattito per l’elezione del suo successore. Ancora una volta, in seguito ad una scadenza elettorale, la coalizione di centrosinistra si ritrova a detenere la maggioranza parlamentare alla Camera dei Deputati, premio scattato in questa circostanza grazie allo 0,4% ottenuto dal Svp. A differenza del 2006, tuttavia, al Senato non gode della maggioranza assoluta, ma soltanto di una maggioranza relativa in seguito al frammentato quadro emerso all’indomani dalle elezioni di febbraio. Le tre principali aggregazioni politiche (Italia Bene Comune, Pdl e Lega, Movimento 5 Stelle) si equivalgono in termini di voti raggiunti, rappresentando ognuno circa 1/3 del Paese, a cui si aggiunge il 10% raggiunto dal raggruppamento centrista.

In un tale scenario, si è già assistito all’elezione dei Presidenti dei due rami del Parlamento, dove il centrosinistra ha eletto due propri esponenti, Laura Boldrini e Piero Grasso, quest’ultimo con un numero di voti inferiore alla maggioranza assoluta, circostanza che lo ha reso come il meno votato nella recente storia repubblicana a quell’incarico. Il Pdl, che aveva tutti gli elementi, in termini di tattica parlamentare, per sabotare tale elezione (dall’astensione al terzo scrutinio ed il voto al quarto per il candidato grillino alla designazione di un candidato montiano), ha preferito percorrere la strada del candidato di bandiera, senza la copertura dei numeri. Una scelta che potrebbe apparire, in termini strategici, calcolata ai fini degli appuntamenti successivi.

L’attenzione, adesso, si è spostata, infatti, sulle manovre per l’elezione del Presidente della Repubblica e le recenti dichiarazioni di Berlusconi in merito, seguite da quelle di ieri di Angelino Alfano dalla Annunziata, hanno rilanciato il dibattito sulla scelta da compiere. Può il Partito Democratico, dopo l’elezione a maggioranza della seconda carica dello Stato e del Presidente della Camera, pensare di eleggere un proprio esponente seguendo quanto accaduto anche nel 2006 ed alla luce dell’inatteso esito elettorale? Ed allo stesso tempo, è ipotizzabile che ad un post-comunista subentri un altro esponente della stessa estrazione politico-culturale?

Il buon senso istituzionale ci porterebbe ad escludere questa eventualità ed ad immaginare che lo stesso Bersani abbia la consapevolezza di orientare la scelta verso esponenti del campo moderato o liberale, al fine di creare le condizioni di una nuova prassi di alternanza e di condivisione per la guida delle istituzioni. Ovviamente, non si tratta di individuare nelle fila del Pdl tale candidatura, quanto, piuttosto, nel più vasto panorama del mondo indicato, dove non mancano figure di assoluta qualità per assurgere a tale carica. Ad avviso dello scrivente, seguendo il dibattito delle ultime ore e le scelte di discontinuità fatte per le presidenze della Camera da Bersani, ci si potrebbe orientare, ad esempio, per la prima donna al Quirinale, scelta tra una rosa di coloro che in questi anni hanno onorato con il loro prestigio ed operato le nostre istituzione all’Italia ed all’estero.

Sarebbe un segnale di distensione e di grande intelligenza politica, che potrebbe rappresentare per lo stesso leader democratico un capitale di credibilità che potrebbe essergli riconosciuto per gli appuntamenti a venire, alla luce anche della sobrietà e della serietà che lo hanno contraddistinto nella guida politica del suo partito fino ad oggi.