Sul Pubblico Impiego s’è voltata pagina nonostante gli sgambetti del Pd

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Sul Pubblico Impiego s’è voltata pagina nonostante gli sgambetti del Pd

02 Marzo 2009

Veramente strano il Pd. Anche nel lavoro parlamentare. Prendiamo il caso della legge delega sul riordino del pubblico impiego voluta dal ministro Renato Brunetta e approvata, in seconda lettura e in via definitiva, dal Senato la settimana scorsa.

Si tratta di un provvedimento importante, destinato a chiudere le pagine ingloriose delle leggi Bassanini (che hanno spalancato le porte, con il pretesto della contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego, allo strapotere dei sindacati) e ad avviare una nuova stagione di efficienza e produttività della pubblica amministrazione, restituendo così competitività all’azienda Italia. Un provvedimento che chiude con successo una fase "eroica" per il ministro Brunetta che, in meno di un anno, è riuscito a dimezzare l’assenteismo, a rinnovare i contratti di lavoro e a porre le basi di una riforma strategica affidata allo svolgersi dei decreti delegati. Nei confronti di quest’ultimo provvedimento affermare che la linea di condotta del Pd è stata singolare, al limite del paradosso, non sarebbe affatto un atto di polemica politica ma una testimonianza della verità.

Cominciamo dalla prima lettura al Senato. Il disegno di legge Brunetta viene collegato in Commissione Lavoro con il progetto presentato da Pietro Ichino. Ne esce un testo che arriva in Aula, dove vengono accolti altri emendamenti dell’opposizione Pd, tanto che il gruppo vota a favore di alcuni importanti articoli e si astiene sull’intero provvedimento. Per settimane (basta consultare il sito www.pietroichino.it) l’insigne giurista lascia intendere che quel testo è più figlio suo che di Brunetta e che gran parte del merito dovrebbe essere attribuito a lui. Il testo del Senato arriva dunque alla Camera. In sede referente se ne occupano, congiuntamente, le Commissioni Affari costituzionali e Lavoro. La maggioranza è tentata di "chiudersi" per due motivi: primo, perché non vuole dissipare l’eredità politica del voto del Senato; secondo, perché avverte che alla Camera il Pd è più sensibile alle istanze della Cgil che a quelle di Ichino. Alla fine però vince l’orientamento di accettare delle modifiche che non alterino il quadro complessivo scaturito dal Senato. Così accade, al punto che l’opposizione, in Aula nel voto sugli emendamenti, riesce persino a mandare in minoranza per due volte il Governo. Logica politica vorrebbe che almeno fosse confermato, in Assemblea, il voto di astensione. Per niente affatto: il voto diventa contrario col pretesto che le modifiche sono state troppo poche. Il disegno di legge ritorna quindi a Palazzo Madama per la seconda e definitiva lettura. Il Governo lo <blinda>, per evitare un altro passaggio a Montecitorio. Che cosa escogita allora il Partito democratico ormai orfano di Veltroni? Torna ad astenersi, risponderanno i lettori. Sbagliato. Innanzi tutto, i senatori democratici lamentano che il testo della Camera è peggiore (sic!) di quello varato in prima lettura dal Senato. Così, nella votazione finale, col pretesto di verificare se la maggioranza è in grado di garantire il numero legale (cosa che riesce con difficoltà), il gruppo del Pd non partecipa al voto.

Sembra proprio che tale comportamento non abbia, nel suo complesso, alcuna giustificazione di merito. A voler leggere tra le righe, emerge con chiarezza che le posizioni di Ichino sono tutt’altro che condivise dalla maggioranza rumorosa del suo partito. Che cosa d’altro potremmo attenderci da un Pd che nelle elezioni regionali della Sardegna ha preteso di ricandidare alla carica di presidente un personaggio che, alcuni mesi prima, era stato cacciato dalla sua stessa maggioranza?