
Sul Recovery Fund siamo in ritardo e senza una visione, ma l’Italia reale non può aspettare

29 Settembre 2020
di Paolo Romani
Di idee ne circolano tante. Alcune molto buone altre meno. Ciò che manca è un progetto che inserisca tutti gli interventi all’interno di una visione complessiva della riforma sociale che si intende realizzare. Perché è inutile nasconderlo: la crisi pandemica ha sicuramente fatto emergere disuguaglianze e forti criticità, ma è andata a deteriorare una situazione già compromessa da problemi strutturali e da qualche più recente errore politico-gestionale. Mi accodo al coro nel dire che prima ancora di “cosa fare?” il tema da porsi sia “come farlo?”: il metodo in questo caso è sostanza. Se nei tanti documenti che circolano spiccano alcune proposte molto interessanti, è vero anche che sono spesso “di parte”, frutto dell’elaborazione di Associazioni, think tank e gruppi di lavoro portatori di interessi particolari, tutti legittimi, ma da contemperare gli uni con gli altri. E questo dovrebbe essere proprio il compito precipuo della politica. D’altro canto è vero anche che le informazioni e conoscenze in possesso, e la capacità di elaborazione delle stesse, che hanno i dicasteri è impareggiabile, non sempre però bilanciata da altrettanta capacità di innovazione: le lenzuolate di vecchi progetti tirati fuori dai cassetti non sono né ciò di cui ha bisogno il Paese oggi né il meglio di quanto le competenze dei ministeri possono produrre.
E dunque come agire? Mettendo assieme tutte le idee, le competenze, le capacità che il Paese è in grado di esprimere, confrontandole, discutendole e mettendole a sistema. Avendo chiari gli obiettivi che si vogliono raggiungere per ogni settore di intervento. Gli Stati Generali, organizzati dal Governo poco prima di chiudere i battenti per le vacanze, se non si fossero ridotti ad una mera passerella sarebbero potuti essere un tentativo di apertura di un dibattito. In ogni caso, sarà desueto, démodé o vetusto, ma resto affezionato ai meccanismi e alle regole della democrazia rappresentativa disegnata dalla Costituzione della Repubblica Italiana, e ritengo sia il Parlamento il luogo deputato a discutere della grande occasione di riforma sociale rappresentata dal Next Generation Eu. Un radicale cambio di paradigma quello avvenuto in Europa, ancora più evidente dalla lettera del 19 settembre scorso, a firma Dombrovskis-Gentiloni, in cui sostanzialmente si garantisce la deroga dei vincoli di bilancio, che hanno consentito al governo italiano, grazie al voto del Parlamento, di effettuare diversi scostamenti di bilancio – in sintesi, di indebitarsi ulteriormente per far fronte alle maggiori spese – anche per il 2021. Come sappiamo le misure messe in campo fino ad ora sono state solo assistenzialiste e poco efficaci; ora questa flessibilità andrebbe utilizzata, in primis, per una corretta revisione del sistema fiscale che allevi il peso della tassazione dal lavoro e dalla produzione. Più che sulle voci di spesa finanziabili con i fondi UE, ciò su cui ci si dovrebbe concentrare l’attenzione sono i problemi esistenti e gli obiettivi da raggiungere, dunque individuare le possibili soluzioni.
Accanto alla riforma fiscale, temi centrali dovrebbero essere il lavoro, il welfare e la formazione nel suo complesso: i pilastri che disegnano la società. Intervenendo sui nodi della difficoltà in ingresso al mercato del lavoro e del reimpiego, in particolare per i giovani, le donne e gli over 50; sul peso del costo del welfare e sulle disuguaglianze fra garantiti e non; sulla competitività del sistema dell’istruzione a livello di mercato globale; sulla formazione professionalizzante e sulla formazione continua; sulla necessaria connessione fra ricerca universitaria e innovazione industriale. Solo superando questi ostacoli è possibile risolvere problemi sociali, come la riduzione delle nascite e la sostenibilità del sistema pensionistico, ma anche intervenire concretamente sulla competitività del Paese, in termini di capitale umano e di impresa innovativa. È necessario disegnare un sistema più “capacitante”, che consenta ai giovani di arrivare a sostenersi economicamente e decidere di mettere su famiglia, adeguando anche i calendari scolastici a quelli lavorativi per conciliare meglio i tempi; un mercato del lavoro più flessibile che consenta di costruire curricula personalizzati; un sistema previdenziale che redistribuisca le garanzie in maniera più equa; un welfare che venga incontro alle esigenze dei diversi nuclei familiari, da quelli monocomponente alle famiglie più numerose. Si possono commutare alcune esperienze già praticate all’estero, come il sistema dei mini job tedeschi e del più complesso service à la personne francese, per venire incontro alle esigenze di flessibilità, welfare familiare ed emersione della lavoro sommerso, o si può guardare al sistema dei Fraunhofer tedeschi per creare un contesto pubblico-privato fertile per l’ideazione e l’applicazione dell’innovazione. Si può creare una via tutta italiana: ma prima ancora di pensare agli incentivi al green e al digitale, anch’essi da elaborare nel modo corretto perché possano essere davvero efficaci, è necessario ripensare a tutto il sistema sociale. E mi sento di contraddire il Presidente del Consiglio che lunedì sosteneva che il Governo non fosse in ritardo sul Recovery Fund: siamo in ritardo non rispetto ad una tabella di marcia europea, siamo in ritardo rispetto ad un Paese che fatica ad andare avanti se non viene riformato radicalmente.