Sul Referendum il Pd per usare troppa tattica ha perso la bussola

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Sul Referendum il Pd per usare troppa tattica ha perso la bussola

22 Aprile 2009

Non c’è pace nel Pd. Neppure sul referendum elettorale che semmai, ancora una volta, dimostra quanta confusione regni dalle parti di via del Nazareno. Perché la linea che alla fine è saltata fuori – a favore del “sì” – arriva dopo settimane di confusione caratterizzate dall’assenza di una linea comune, in cui semplicemente si  si è proceduto in ordine sparso.

Prima la levata di scudi sull’election day – mossa tattica per strumentalizzare politicamente la tragedia dell’Abruzzo col refrain sul risparmio di soldi pubblici -, poi l’apertura all’ipotesi del rinvio propagandata da una parte dei democrat, D’Alema in testa il quale poi a sua volta ha cambiato idea allineandosi alla maggioranza.

Ma è solo l’inizio. Perché  a questo si aggiungono le irritazioni degli ex popolari e in particolare dei rutelliani che proprio nell’indicazione di voto sortita dalla direzione nazionale, adesso temono l’effetto boomerang.  Il rischio, a loro avviso, è quello di servire un regalo su un piatto d’argento a Berlusconi. Se infatti venisse raggiunto il quorum e prevalessero i sì, il premier sarebbe in questo momento (forte del consenso popolare) l’unico a guadagnarci (compreso un solidissimo premio di maggioranza).  
Scenario che il senatore Latorre (dalemiano di ferro) non si sente di escludere nel caso in cui “l’eventuale vittoria dei sì non venga gestita con una seria riforma elettorale in Parlamento per cancellare l’attuale sistema”. Per questo motiva quel “sì” come grimaldello per favorire la riforma della legge elettorale contando anche sulla trasversalità che la proposta potrebbe incassare tra deputati e senatori,  pure nelle file della maggioranza. E qui il riferimento è alla Lega che non a caso sull’ipotesi di election day ha minacciato la crisi di governo. “Il referendum ha valore abrogativo ma le leggi si fanno in Parlamento” osserva Latorre convinto che attorno questo tema si possa mettere insieme una maggioranza bipartisan.

Certo è che dopo tanta tattica, la via obbligata per Franceschini e i suoi era quella di sostenere il “sì” al quale viene attribuito un valore simbolico ancorato alla volontà di mettere mano in Parlamento all’attuale sistema di voto. Un escamotage servito, in realtà, come tentativo di mediazione tra le varie anime del partito, divise sostanzialmente tra i sostenitori di un bipartitismo puro e coloro che invece propendono per un assetto incentrato sul bipolarismo, ritenendolo più conforme alla cultura politica made in Italy (fermo restando l’impegno contro il proliferare di partitini). E che la linea di Franceschini non convinca sul piano politico e dal punto di vista del risultato finale, lo si evince anche dalle critiche piovute all’indirizzo del segretario nazionale dai quotidiani di area Il Riformista e Europa, orientati per l’astensione.

Il j’accuse lanciato da Rutelli (e dai suoi) è indicativo del malessere che regna tra i democrat, specie per il fatto che se passasse il referendum, il premio di maggioranza oggi assegnato alla coalizione vincente andrebbe al partito che ha ottenuto più voti. E in questo momento in pole position c’è il Cav.
“Così si costringe il centrosinistra a cancellare quello che ha fatto con la nascita del Pdha tuonato l’ex leader Dl, perché di fatto si avrebbe “un listone che raggruppa in sé tutta l’ipocrisia di un accordo elettorale che si smembra il giorno dopo le elezioni”. Chiosa eloquente all’indirizzo del Pd: “Vedo che Berlusconi si sta schierando per il sì e forse questo aprirà gli occhi a qualcuno”.

Da parte sua Latorre  rivela di aver avuto una personale perplessità sull’ipotesi dell’election day ma di aver cambiato idea dopo il terremoto in Abruzzo ritenendo “in linea col partito, che quella dell’election day era una scelta giusta, saggia soprattutto perché avrebbe consentito di contenere i costi della politica. Ed appare incomprensibile il fatto che l’opinione, peraltro rispettabile della Lega che temeva il raggiungimento del quorum se il referendum fosse stato accorpato al primo turno di amministrative ed europee, alla fine abbia prevalso. Io sono convinto che su questo il governo non sarebbe caduto. E il no della maggioranza lo consideriamo un grave errore”.

Resta il fatto che il “sì” franceschiniano  nei ranghi piddì viene letto come una debole via d’uscita per tenere insieme le fila di un partito che pare aver smarrito la bussola.