Sul tema del clima Cancun rischia di diventare una seconda Copenaghen
04 Ottobre 2010
La scorsa settimana il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, ha partecipato a New York alla riunione del MEF (Major Economies Forum) dedicata al problema dei cambiamenti climatici in preparazione della riunione di fine anno a Cancun, in Messico. Qui saranno nuovamente presenti tutti gli attori che hanno già partecipato alla Conferenza ONU di Copenhagen il cui fallimento ha decretato uno stop consistente alle negoziazioni del dopo Kyoto.
Di fatto la situazione è talmente deteriorata che nessuno, nemmeno gli ambientalisti più ottimisti, spera nel raggiungimento di obiettivi concreti per quest’anno; sarà già un successo se si potrà arrivare ad un risultato intermedio che consenta almeno di poter affermare che qualche passo avanti nelle negoziazioni è stato fatto e che vi sono spiragli di raggiungere qualche compromesso accettabile in vista del round definitivo previsto per fine 2011.
Su tutto continua ad aleggiare il problema più importante che mette piombo alle ali di ogni ragionevole speranza di successo: la condivisione delle scelte e l’assunzione da parte di tutti i paesi della loro parte di responsabilità. I temi del negoziato, ricordiamolo, riguardano aspetti strategici fondamentali quali l’adattamento ai cambiamenti, le azioni di mitigazione, il trasferimento delle tecnologie fortemente voluto dai Paesi in via di sviluppo, e, certamente non meno importante, i costi finanziari delle politiche da adottare e le modalità di compensazione, economica ed in kind, previste nelle azioni di emission trading.
Su questi temi il ministro ha ribadito che l’Italia sta cercando di arrivare ad un accordo di principio su di un pacchetto di decisioni equilibrate in modo da non compromettere il raggiungimento di un accordo globale e vincolante per tutti i paesi. E, passo essenziale, ha ricordato come il nuovo impegno sia subordinato agli impegni vincolanti delle maggiori economie del mondo, incluse quelle di Brasile, Cina ed India ancora oggi in forte sviluppo e largamente co-responsabili delle emissioni di CO2.
Oggi stiamo svolgendo correttamente la nostra parte difendendo con coraggio i nostri interessi al pari di quello che fanno tutti gli altri paesi economicamente avanzati. Il problema sarà, per tutti, capire cosa verrà fuori da Cancun. Sopratutto dopo il fallimento di Copenhagen il mondo scientifico è da tempo in forte ebollizione: la sequela di scandali che hanno investito lo IPCC hanno indebolito non poco l’immagine di questa istituzione. Una commissione d’inchiesta ONU, formalmente indipendente ed abbastanza all’acqua di rose, ha partorito un documento di valutazione cerchiobottista che investe, con molta levità, le modalità di funzionamento dell’IPCC, ma che gira pudicamente dall’altra parte gli occhi sugli scandali di manipolazione dei dati scientifici che ne hanno caratterizzato i comportamenti recentemente. Né tanto di più ci si poteva aspettare trattandosi di un’iniziativa ONU, come ci ha mostrato la storia passata di casi analoghi o peggiori determinatisi al suo interno.
Alcuni economisti hanno cominciato a valutare il costo reale delle proposte risolutive che circolano; anche qui i risultati variano a seconda della “scuola di pensiero” di appartenenza di chi fa le stime ma in ogni caso i numeri che emergono non sono esaltanti, anzi. Taluni, come Lomborg, sono particolarmente duri. Criticano sia la reale capacità di raggiungere il “mitico livello” di un innalzamento di non più di 2 gradi nel prossimo decennio a salvaguardia del pianeta, sia i costi previsti per i cittadini europei; sarebbero miliardi di euro spesi per poco o nulla proprio in un momento in cui la crisi mondiale sembra ripartire almeno in alcuni paesi europei che potenzialmente potrebbero innescare nuovamente un drammatico effetto a catena sulle differenti economie.
Le osservazioni scientifiche dei parametri ambientali, nonostante la fideistica posizione degli uni a favore e degli altri contrari, presentano ancora incertezze non piccole così da dare adito ad interpretazioni spesso decisamente opposte. Su tutto aleggia il problema: è l’uomo la causa di questi cambiamenti? Se si allora è chiaro che si può intervenire almeno per ridurne l’impatto. Se viceversa prevalgono i fenomeni naturali allora dovremo parlare piuttosto di come affrontare una mitigazione dei loro effetti.
In entrambi i casi va affrontato il problema dell’adattamento. A chi credere e perché? In tutta onestà la risposta a questa domanda io non la posseggo e, ritengo, nessun ricercatore onesto la possiede. Muoversi si deve, negoziare è importante almeno per arrivare a pochi punti fermi che siano condivisibili a livello globale. Ci riusciremo? O meglio ci riusciranno i politici, i diplomatici e gli stessi scienziati che si sono agitati sino ad oggi con poco costrutto? Sarò pessimista, ma temo che Cancun possa partorire un topolino, e sarebbe già un grande successo.