Sulla Birmania è calato il silenzio, ma la repressione continua

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Sulla Birmania è calato il silenzio, ma la repressione continua

07 Dicembre 2007

La politica
internazionale procede per grandi ondate. Tra agosto e settembre, a riempire le
vuote giornate che segnano il ritorno al lavoro per gran parte degli
occidentali, i media si vestirono di arancione per sostenere la protesta dei
monaci birmani contro la giunta militare guidata dal generale Than Shwe. La
protesta dei bonzi fu segnata da una violentissima repressione, seguita dallo
sdegno di gran parte delle nazioni mondiali: eccezion fatta per Cina e India, a
capo di coloro che in Birmania hanno troppi interessi per pensare di rovesciare
lo status quo.  

L’opposizione cinese
in seno alle Nazioni Unite – nonostante gli sforzi dell’inviato Onu Ibrahim Gambari,
affiancato ora dall’inviato dell’Ue Piero Fassino – ha bloccato qualsiasi
iniziativa utile a salvaguardare il rispetto della libertà e dei diritti umani
in Birmania. E i media, giorno dopo giorno, hanno smesso le vesti arancioni per
occuparsi di questioni più pressanti e “mediatiche”: il conflitto
israelo-palestinese, le assurde elezioni russe, il nucleare iraniano e via fino
alle beghe nostrane, culminate nella disputa su come accogliere il Dalai Lama
in visita in Italia. 

Ma in Birmania in
molti sono morti – va da sé che il numero preciso dei monaci scomparsi, uccisi
e cremati non lo sapremo mai –, e la repressione non accenna a diminuire. Aung
San Suu Kyi, leader dell’opposizione e premio Nobel per la pace, è sempre
dietro le sbarre della sua casa: con buona pace del finto dialogo inscenato per
ingraziarsi la comunità internazionale. Il ritorno allo status quo antecedente le
proteste di agosto, così come la severa censura che dalle strade delle città
stende i suoi tentacoli fino a internet, non facilita certo la circolazione
delle notizie: ma alcune Ong (Organizzazioni Non Governative), insieme a
coraggiosi dissidenti (rappresentati da attivi news-blog), qualche notizia
riescono a farla filtrare.

Partiamo da una
denuncia ufficiale, lanciata da Amnesty International a fine novembre. Secondo
la celebre organizzazione per la difesa dei diritti umani, arresti e
repressioni da parte della giunta al potere non si sono fermati nonostante le
rassicurazioni fornite a Ibrahim Gambari. Nelle carceri birmane si troverebbero
700 attivisti legati alle manifestazioni di agosto e settembre, oltre a 1500
oppositori di vecchia data. Secondo Chaterine Baber, direttrice del Programma
Asia, “due mesi dopo la violenta repressione contro manifestanti pacifici
gli arresti arbitrari proseguono senza sosta, nel quadro di una sistematica
soppressione della libertà d’espressione e associazione, che fa a pugni con il
conclamato ritorno alla normalità”. Amnesty ricorda poi come a metà
novembre, in occasione del quarantesimo summit dell’Asean, anche la Birmania abbia
firmato una Carta che impegna gli Stati membri a “promuovere e difendere i
diritti umani”: eppure nello stesso mese sono stati arrestati venti
attivisti impegnati in attività antigovernative (tra le più
“violente”, la distribuzione di volantini per le strade).

Casi specifici di
violazione dei fondamentali diritti democratici emergono poi dalle
testimonianze di attivisti sul territorio. A fine novembre Pu Chin Sian Thang è
stato arrestato dalle autorità birmane: unica colpa, quella di essere il leader
della minoranza etnica Chin. Il figlio, sentito dall’agenzia Mizzima, ha
dichiarato che il padre è stato arrestato da due poliziotti alle 8 di mattina,
senza che gli fosse fornita alcuna giustificazione.

Ancor più crudele una
notizia battuta dalla Reuters il 30 novembre: la giunta birmana ha chiuso i
battenti di un monastero di Rangoon, utilizzato come ospedale per malati di
Aids. I monaci sono stati espulsi, senza alcun permesso e (ancora una volta)
senza alcuna giustificazione. L’azione è stata duramente criticata da Gambari,
il quale l’ha bollata come contraria allo spirito del dialogo e della
riconciliazione nazionale auspicata da più parti. Ma non saranno dei malati di
Aids a fermare la polizia birmana, se è vero che i monaci del monastero erano
conosciuti per la loro attività a favore della democrazia.

Più recente è un
singolare caso di ritorsione nei confronti dell’attore televisivo Kyaw Thu,
legato alle proteste di fine estate. La figlia dell’attore, residente in
Australia, convolerà presto a nozze: niente di particolarmente sovversivo, ma
la giunta ha vietato a tutti i quotidiani birmani di pubblicare l’annuncio del
matrimonio. “Il mio nome non può essere pubblicato in nessuna rivista o
quotidiano – ha commentato Thu – e il mio nome non può comparire neppure per
annunciare il matrimonio di mia figlia”.

Per le strade, poi,
Than Shwe non perde occasione di ricordare da che parte stia la forza. Nei
giorni scorsi carri armati militari hanno pattugliato le strade di Myit Kyina,
nel nord della Birmania: secondo un funzionario della Kachin Independence Army,
“forse la giunta vuole mostrarci la sua forza e darci qualche
avvertimento”. Un avvertimento semplice: dopo mesi di proteste, il manico
del coltello è sempre nelle mani della dittatura. 

In tutto ciò, la
politica internazionale sembra aver perso l’iniziale vigore. La principale
novità, in ambito continentale, è la nomina di Piero Fassino come inviato della
Ue per la Birmania: Fassino si è dato da fare incontrando il ministro degli
Esteri francese Kouchner, volando a New York per parlare con Gambari, unendo la
voce europea a quella dell’inviato delle Nazione Unite nel chiedere democrazia,
riconciliazione nazionale e libertà. Ma ben poco potranno i due inviati di
fronte al muro eretto dalla Cina: insieme al gigante asiatico, anche Laos e
Cambogia hanno dichiarato la propria contrarietà alle sanzioni, mentre l’Asean
ha annullato un intervento di Gambari (originariamente pensato per illustrare
pubblicamente la situazione birmana). I risultati sono sconfortanti: il meglio
che la politica sia riuscita a produrre è un documento non vincolante (non
essendoci stata l’unanimità all’interno del consiglio di sicurezza delle
Nazioni Unite) che condanna la repressione della giunta birmana – con 88 voti a
favore, 24 contrari e 66 astenuti. 

E proprio contro la
politica delle parole si stanno muovendo in queste settimane organizzazioni di
attivisti democratici laici, che hanno preso il posto dei monaci brutalmente
sconfitti con la violenza. L’All Burma Young Monks Union, di base in India, ha
organizzato una manifestazione a Nuova Delhi denunciando gli incredibili danni
arrecati dalla giunta (e dalla sua condotta) alla religione buddista. E mentre
il partito d’opposizione di Aung San Suu Kyi chiama tutti gli oppositori
all’unità, un gruppo di attivisti non meglio identificati ha informato Mizzima
che dal primo gennaio 2008 partirà una “campagna di non
cooperazione”: il progetto è quello di spingere quanti più cittadini
possibili ad astenersi dal lavoro. 

Degli ultimi giorni,
tornando in Europa, è infine l’appello lanciato da quattro intellettuali
francesi – tra cui Glucksmann e Lévi – a Nicolas Sarkozy: l’idea è che il
presidente vada in Birmania e chieda di incontrare Aung San Suu Kyi
nell’ambasciata francese. Sarkozy, visti i recenti successi internazionali,
deve essere sembrato l’uomo giusto per tentare l’impossibile: ma forse è troppo
anche per un iperpresidente.